I Sepolcri
“Sepolcri” sono comunemente detti nel Sud Italia gli altari della reposizione, che vengono allestiti nelle chiese dopo la messa del Giovedì Santo. Una incursione nel mistero della morte e resurrezione di Gesù attraverso una delle più antiche tradizioni della Settimana Santa.
Il termine “sepolcro” viene utilizzato ancor oggi nel linguaggio popolare di alcune regioni del Sud Italia per indicare quello che più propriamente andrebbe definito come “altare” o “cappella” della reposizione. L’altare della reposizione, per intenderci, è quello “spazio” della chiesa allestito al termine della “missa in cena Domini” del Giovedì Santo destinato ad accogliere le specie eucaristiche consacrate e a conservarle fino al pomeriggio del Venerdì Santo, quando, al termine della liturgia penitenziale, verranno distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale. Dopo la messa vespertina del Giovedì infatti, come si sa, non sono consentite altre celebrazioni eucaristiche fino alla notte di Pasqua, per cui per la comunione debbono necessariamente essere utilizzate le particole messe da parte la sera del Giovedì.
Le specie eucaristiche custodite nella cappella della reposizione (che verrà disfatta nel pomeriggio del Venerdì prima che cominci la liturgia della passione) rimangono tutta la notte a disposizione dei fedeli per l’adorazione. Il Santissimo Sacramento però non è osteso, ma celato all’interno di un apposito contenitore, mentre il tabernacolo, vuoto, rimane aperto, proprio a testimoniare l’assenza fisica di Gesù (lo sposo, infatti, secondo l’immagine evangelica, ci è stato tolto e il popolo è in lutto), quell’assenza che solo la fede nella risurrezione può riuscire a colmare.
Non senza ragione, dunque, la pietà popolare ha accostato nei secoli all’altare della reposizione l’idea del sepolcro, cogliendo in esso una metafora della morte e sepoltura di Gesù. Contraria all’uso del termine “sepolcri” per indicare gli altari della reposizione si è mostrata invece, di recente, la Congregazione per il culto divino, la quale in una dichiarazione del 1988 ha osservato come “la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare la sepoltura del Signore, ma per custodire il Pane Eucaristico per la Comunione che verrà distribuita il venerdì della passione di Gesù”. La Congregazione, però, non ha considerato - come taluno ha puntualmente evidenziato - che la parola latina “repositorium” (da cui “reposizione”) ha effettivamente tra i suoi significati anche quello di “tomba” o “sepolcro”.
La pratica di allestire gli altari della reposizione, affermatasi in Europa a partire dall’età carolingia, per quanto possa ripugnare alla sensibilità moderna, esprime in verità l’idea del lutto e della sepoltura, come anche l’etimo latino sta a testimoniare. Il che ha pure una sua giustificazione teologica. E’ vero infatti che noi cristiani nell’eucaristia adoriamo il Cristo vivente, ma è altrettanto vero che Gesù è passato alla vita incorrotta attraverso la morte e per di più una morte cruenta. Nella consacrazione eucaristica si ripete e si riattualizza questo triplice mistero di passione, morte e risurrezione. Se ci sembra strano associare all’eucaristia l’idea della tomba, come invece fa la devozione popolare il Giovedì Santo, forse è perché non siamo più abituati a guardare al mistero eucaristico come ad un reale sacrificio. Eppure la dimensione sacrificale fa realmente parte del “sacramento dell’altare”, non potendosi ridurre, almeno per chi crede, ad un fatto puramente simbolico.
La pia pratica dei “sepolcri”, che in molte altre zone sta conoscendo una progressiva flessione, continua invece ad essere particolarmente sentita in Sicilia. I “sepulcra”, come si dice in gergo, qui si è usi adornarli con fiori e segni vari che richiamano l’ultima cena e la passione di nostro Signore, come i cosiddetti piatti di “sepulcru”, preparati dai fedeli nelle proprie abitazioni durante il periodo quaresimale riempiendo dei tondi con uno strato di stoppa o canapa imbevuto d’acqua e gettandovi sopra chicchi di grano, ceci, lenticchie e scagliola. I suddetti “piatti” vengono quindi posti in un luogo buio per consentire alle piantine di metter su rapidamente i germogli. Una volta cresciute, le pianticelle vengono legate con nastri rossi e poste ad ornamento dei “sepolcri”, quale simbolo della vita che nasce dal buio e che prorompe dal nulla con forza inarrestabile. Forse è per questo che alcuni studiosi (come il Pitrè, poeta e fine conoscitore di tradizioni siciliane) ritengono che la simbologia dei “sepolcri” affondi le sue radici nell’antico culto di Adone, il bellissimo fanciullo di cui si era invaghito Afrodite e che, dopo essere stato ucciso da un cinghiale, ottenne da Zeus il privilegio di passare una parte dell’anno tra i vivi per poi ritornare periodicamente nel mondo dei morti. Il culto di Adone, che simboleggia il risveglio della natura dopo l’inverno, cadeva nell’antica Grecia proprio il giorno dell’equinozio di primavera (21 marzo), da cui noi cristiani cominciamo a contare la Pasqua.
Se il riferimento al culto di Adone può spiegare la genesi della consuetudine di collocare fiori e “piatti” ad arredo degli altari della reposizione, d’altro canto il significato della pratica rimane cristiano, e come tale è percepito dagli stessi devoti. Come mi spiegò un tempo un’anziana e per nulla colta signora, parlandomi della devozione dei “sepolcri” (riporto le sue parole in buona traduzione dal dialetto trapanese): “Il seme lasciato a macerare al buio da cui rinasce la vita è Gesù che, dopo il suo lungo calvario, entrato e uscito che fu dalle tenebre della morte, ritorna dopo la sua Resurrezione a vivere e a ridar vita e conforto al mondo intero. I piatti offerti il giovedì santo sono quindi augurio della sua Resurrezione, perché venga di nuovo a illuminare e a ridare gioia agli uomini”. Forse il più dotto dei teologi non avrebbe saputo trovare parole più belle di queste per esprimere il mistero della morte e resurrezione di Gesù. Ma in fondo non è quello che Gesù aveva detto ai suoi discepoli alla vigilia della sua passione: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane da solo; se invece muore produce molto frutto” (Gv 12, 24)?
Il termine “sepolcro” viene utilizzato ancor oggi nel linguaggio popolare di alcune regioni del Sud Italia per indicare quello che più propriamente andrebbe definito come “altare” o “cappella” della reposizione. L’altare della reposizione, per intenderci, è quello “spazio” della chiesa allestito al termine della “missa in cena Domini” del Giovedì Santo destinato ad accogliere le specie eucaristiche consacrate e a conservarle fino al pomeriggio del Venerdì Santo, quando, al termine della liturgia penitenziale, verranno distribuite ai fedeli per la comunione sacramentale. Dopo la messa vespertina del Giovedì infatti, come si sa, non sono consentite altre celebrazioni eucaristiche fino alla notte di Pasqua, per cui per la comunione debbono necessariamente essere utilizzate le particole messe da parte la sera del Giovedì.
Le specie eucaristiche custodite nella cappella della reposizione (che verrà disfatta nel pomeriggio del Venerdì prima che cominci la liturgia della passione) rimangono tutta la notte a disposizione dei fedeli per l’adorazione. Il Santissimo Sacramento però non è osteso, ma celato all’interno di un apposito contenitore, mentre il tabernacolo, vuoto, rimane aperto, proprio a testimoniare l’assenza fisica di Gesù (lo sposo, infatti, secondo l’immagine evangelica, ci è stato tolto e il popolo è in lutto), quell’assenza che solo la fede nella risurrezione può riuscire a colmare.
Non senza ragione, dunque, la pietà popolare ha accostato nei secoli all’altare della reposizione l’idea del sepolcro, cogliendo in esso una metafora della morte e sepoltura di Gesù. Contraria all’uso del termine “sepolcri” per indicare gli altari della reposizione si è mostrata invece, di recente, la Congregazione per il culto divino, la quale in una dichiarazione del 1988 ha osservato come “la cappella della reposizione viene allestita non per rappresentare la sepoltura del Signore, ma per custodire il Pane Eucaristico per la Comunione che verrà distribuita il venerdì della passione di Gesù”. La Congregazione, però, non ha considerato - come taluno ha puntualmente evidenziato - che la parola latina “repositorium” (da cui “reposizione”) ha effettivamente tra i suoi significati anche quello di “tomba” o “sepolcro”.
La pratica di allestire gli altari della reposizione, affermatasi in Europa a partire dall’età carolingia, per quanto possa ripugnare alla sensibilità moderna, esprime in verità l’idea del lutto e della sepoltura, come anche l’etimo latino sta a testimoniare. Il che ha pure una sua giustificazione teologica. E’ vero infatti che noi cristiani nell’eucaristia adoriamo il Cristo vivente, ma è altrettanto vero che Gesù è passato alla vita incorrotta attraverso la morte e per di più una morte cruenta. Nella consacrazione eucaristica si ripete e si riattualizza questo triplice mistero di passione, morte e risurrezione. Se ci sembra strano associare all’eucaristia l’idea della tomba, come invece fa la devozione popolare il Giovedì Santo, forse è perché non siamo più abituati a guardare al mistero eucaristico come ad un reale sacrificio. Eppure la dimensione sacrificale fa realmente parte del “sacramento dell’altare”, non potendosi ridurre, almeno per chi crede, ad un fatto puramente simbolico.
La pia pratica dei “sepolcri”, che in molte altre zone sta conoscendo una progressiva flessione, continua invece ad essere particolarmente sentita in Sicilia. I “sepulcra”, come si dice in gergo, qui si è usi adornarli con fiori e segni vari che richiamano l’ultima cena e la passione di nostro Signore, come i cosiddetti piatti di “sepulcru”, preparati dai fedeli nelle proprie abitazioni durante il periodo quaresimale riempiendo dei tondi con uno strato di stoppa o canapa imbevuto d’acqua e gettandovi sopra chicchi di grano, ceci, lenticchie e scagliola. I suddetti “piatti” vengono quindi posti in un luogo buio per consentire alle piantine di metter su rapidamente i germogli. Una volta cresciute, le pianticelle vengono legate con nastri rossi e poste ad ornamento dei “sepolcri”, quale simbolo della vita che nasce dal buio e che prorompe dal nulla con forza inarrestabile. Forse è per questo che alcuni studiosi (come il Pitrè, poeta e fine conoscitore di tradizioni siciliane) ritengono che la simbologia dei “sepolcri” affondi le sue radici nell’antico culto di Adone, il bellissimo fanciullo di cui si era invaghito Afrodite e che, dopo essere stato ucciso da un cinghiale, ottenne da Zeus il privilegio di passare una parte dell’anno tra i vivi per poi ritornare periodicamente nel mondo dei morti. Il culto di Adone, che simboleggia il risveglio della natura dopo l’inverno, cadeva nell’antica Grecia proprio il giorno dell’equinozio di primavera (21 marzo), da cui noi cristiani cominciamo a contare la Pasqua.
Se il riferimento al culto di Adone può spiegare la genesi della consuetudine di collocare fiori e “piatti” ad arredo degli altari della reposizione, d’altro canto il significato della pratica rimane cristiano, e come tale è percepito dagli stessi devoti. Come mi spiegò un tempo un’anziana e per nulla colta signora, parlandomi della devozione dei “sepolcri” (riporto le sue parole in buona traduzione dal dialetto trapanese): “Il seme lasciato a macerare al buio da cui rinasce la vita è Gesù che, dopo il suo lungo calvario, entrato e uscito che fu dalle tenebre della morte, ritorna dopo la sua Resurrezione a vivere e a ridar vita e conforto al mondo intero. I piatti offerti il giovedì santo sono quindi augurio della sua Resurrezione, perché venga di nuovo a illuminare e a ridare gioia agli uomini”. Forse il più dotto dei teologi non avrebbe saputo trovare parole più belle di queste per esprimere il mistero della morte e resurrezione di Gesù. Ma in fondo non è quello che Gesù aveva detto ai suoi discepoli alla vigilia della sua passione: “Se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane da solo; se invece muore produce molto frutto” (Gv 12, 24)?