giovedì 12 marzo 2015

GEGANTE 'E PALAZZO

Il Gigante di palazzo è un grande torso, originariamente consacrato al culto di Giove, che nel 1668 il viceré di Napoli don Pietro Antonio d'Aragona fece porre in cima alla salita che dalla darsena immetteva in Largo di Palazzo, ovvero nell'attuale Piazza del Plebiscito.
 Detto chi fosse il Gigante, è il caso, forse, di ricordare che il Palazzo è la reggia voluta da don Fernando Ruiz de Castro, conte di Lemos e viceré di Napoli a sua volta, il quale nel 1600, attendendosi una visita che mai ci fu del re Filippo III, ne commissionò l'esecuzione a Domenico Fontana. Merita memoria il fatto che l'architetto reale la consegnò nel 1602, e cioè dopo solo due anni di lavori.
All'enorme busto marmoreo il nome venne dato perché lo si rinvenne in località Masseria del Gigante durante gli scavi del Capitolium a Cuma e per motivi devozionali non si volle dire al popolo che un tempo c'era chi credeva fosse Giove il più grande degli dei.
 Certo è che il Gegante 'e palazzo fu per Napoli ben presto e per centotrentotto anni quello che Pasquino fu per Roma e il Gobbo di Rialto per Venezia, ovvero il sito dove si apponevano satire in versi e in prosa all'indirizzo delle autorità costituite. Ingegni occulti le scrivevano e mani misteriose le affiggevano, sfidando nelle notti oscure i posti di guardia che vi erano a presidio.

A farne per primo le spese fu, com'era giusto, lo stesso don Pietro Antonio d'Aragona, ma chi rese involontariamente celebre il Gigante in tutta Europa fu Luis de la Cerda, duca di Medinaceli, che giunto come viceré nel 1695 pensò bene di estirpare alla radice la mala pianta della satira e garantì una taglia di 8.000 scudi d'oro a chi fornisse notizie utili all'arresto degli autori.
 Ebbene, il giorno successivo, un foglio affisso sul Gigante offrì 80.000 scudi d'oro a chi portasse la testa del viceré in piazza del Mercato.
Non andò poi meglio ai viceré austriaci, tant'è che al conte Alois Thomas Raimund di Harrach, nel 1730, venne sul marmoreo busto indirizzato un coupletdi quelli ancora oggi leggibili su banchi e su pareti, scritti dai ragazzi come arma innocua nel rapporto di potere contro il mondo adulto, o ripetuti con delizia dai bambini nelle complicità socializzanti della fase anale.
«Neh che ffa 'o conte d'Harraca?
Magna, bbeve e ppò va caca».

Prima di lasciare il trono di Napoli a Gioacchino Murat, nel 1808, Giuseppe Bonaparte, fratello di Napoleone e re dal 1806, non più sopportando il "napoletano aceto" che lo bersagliava continuamente, invece di metter taglia sugli anonimi autori, se la prese col Gigante, ordinandone il "trasloco" dalla piazza alle scuderie di Palazzo reale.
 Ma la mattina stessa della "rimozione forzata" si poterono leggere sul busto queste ultime volontà del vecchio Giove: «Lascio la testa al Consiglio di Stato, le braccia ai Ministri, lo stomaco ai Ciambellani, le gambe ai Generali e tutto il resto a re Giuseppe».
 E tutti intesero quale altra "parte" riservasse argutamente al Bonaparte.

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