mercoledì 16 giugno 2010

La famiglia, l' infanzia...Vico...


Io sono nata nel 1947, non posso ricordare la guerra  ma ricordo il dopoguerra; l' Italia che si vede oggi nei film in bianco e nero degli anni 50.
Dai miei so che sono nata nella casa del nonno paterno, al Corso Vittorio Emanuele. Non la ricordo, ma era quella dove i miei nonni paterni,con i loro dodici figli avevano abitato per una vita. Sullo stesso pianerottolo c' erano i cugini Barendson, cugini due volte perché mia nonna Eva Barendson aveva sposato mio nonno Tito Gambardella e la sorella di lui aveva sposato il fratello di lei.
 Era una grande casa, circa dieci camere; quando papà, al ritorno dalla prigionia, conobbe e sposò mamma, lei frequentava la famiglia come amica di mia zia Elia, sorella di papà, che era e restò sempre signorina.
Gli altri figli erano sposati e vivevano altrove: sembrò naturale che la nuova coppia restasse col nonno; mia madre era molto legata al suocero, felice di vivere in una famiglia dove i figli in visita riempivano la casa, per lei abituata da sempre a una vita a tre : lei, sua madre e sua sorella.
C' erano, amici, cugini che andavano e venivano, grandi tavole apparecchiate, sempre un' atmosfera festosa.
Quando nacqui io, che avevo il nome della nonna che non c' era più,  ci fu grande felicità, anche se c' erano già altri nipoti, ero la prima a chiamarsi Eva.
Quando ebbi un anno e mezzo il nonno morì e gli equilibri saltarono : il nonno era stato un grande avvocato, ma crescere dodici figli dei quali molti, tra i maschi, con sindrome da Peter Pan, non era stato facile ; di tanta abbondanza restava la casa. Mamma supplicò invano di poterla riscattare pagando un pò alla volta le quote agli altri...niente da fare, alcune mogli di fratelli vollero realizzare subito, la casa fu venduta.
Noi andammo in affitto, o meglio, in subaffitto al 440 del Corso Vittorio Emanuele: era un palazzo antico con scale, androni, terrazze, poi altre scale. Abitammo per quattro anni presso una famiglia composta da padre anziano e tre figli, un maschio e due ragazze. La casa era divisa in due, credo cucina e bagno in comune; era il dopoguerra, loro avevano bisogno di arrotondare, noi di una casa.
I miei primi ricordi risalgono a quegli anni: d' estate non si andava in vacanza, si andava con la Cumana a fare i bagni a Torregaveta; ci sono due odori che mi ricorderanno sempre quel tempo : la frittata di maccheroni, il piatto classico da spiaggia del napoletano e l'odore misto di treno, sudore e gelato che ancora adesso, se si cammina per Montesanto e si passa vicino alla Cumana ti riporta a quei tempi.
I miei erano gran signori con un pizzico di boheme: continuavano a ricevere amici come se vivessimo in un castello; io non provavo imbarazzo perché non avevo ricordi precedenti, in quella casa nel 52 nacque mia sorella. Nel 53 papà riusci a comprare una casa dell' Ina case, quelle popolari che venivano costruite e che si riscattavano, a Fuorigrotta. Oggi è un quartiere come un altro di Napoli : allora per noi fu l' esilio.
Già il nome: da Mergellina bisognava attraversare un tunnel, c'era quello dei tram e quello degli autobus, il particolare dei tunnel ti faceva sentire "fuori " Napoli, poi eravamo nel '53; c' era una chiesa, una piazza, Viale Augusto, zingari e campagna. In fondo a viale Augusto che oggi è una via piena di palazzi e negozi, c'era una piazza con la Mostra d' Oltremare, faraonico complesso con stand, una fontana enorme con zampilli, e cascatelle che scendevano a gradini, un teatro, il tutto fatto costruire da Mussolini, prima della guerra per ospitare una mostra delle nostre colonie, le colonie dell' impero.
Allo scoppio della guerra i poveri etiopi, che si trovavano con costumi, palmizi e cose varie a mostrare la grandezza dell' Italia nel mondo, rimasero là. C' era, tra la fine di Viale Augusto e Piazzale Tecchio, una costruzione fatiscente dove, miseramente, viveva questo gruppo di persone ( basta immaginare uno stanziamento di extracomunitari oggi ). Non so come e di che vivessero; non so se, come e quando furono rimpatriati, ma quando andammo a Fuorigrotta, erano là. Di fronte casa nostra c'era una costruzione: lo Sferisterio, dove si giocava la "pelota basca", uno sport su cui la gente scommetteva. I miei genitori, a volte accompagnavano amici a vedere la partita, e forse a scommettere.
L' ambiente di questo grosso caseggiato con quattro scale era misto: c' erano signori come noi che la guerra aveva costretto ad abitare in case popolari e c'era anche gente modesta, operai, commessi.
Una sera, mamma aspettava che mio padre rientrasse: una signora, al piano di sopra si affacciò e chiese " Signò ma vostro marito torna tardi perchè fa il guardio?" Voleva dire guardia ma lo disse, secondo lei, italianizzando la parola. Papà, al ritorno trovò mamma in lacrime che gli chiedeva tra che gente l' avesse portata...
Facemmo amicizia con una famiglia del primo piano, i Bianchi persone carine con cui restammo legati per anni anche dopo, con i Simiani del quarto piano; il padre di lei era stato ministro durante il fascismo, avevano quattro figli e mia madre era convinta che lei bevesse e anche che portasse male.
I Rizzotti, quelli del piano di sopra, quattro figli e padre pompiere, furono la nostra salvezza perché erano l' unica famiglia del condominio ad avere la televisione: l' anno dopo cominciò " Lascia o raddoppia?" e tutti andavamo da loro, proprio tutti; mettevano le sedie in fila e assistevamo alla trasmissione.
Nel pomeriggio c'era la tv dei ragazzi, poi non c' era più niente, ma la signora diceva" Bambini spegnete che si consumano le valvole".
Io, prima che nascesse mia sorella, ero stata molto coccolata, soffrivo di gelosia ero dispettosa, saccente, venivo spesso sculacciata e messa in punizione e questo mi incattiviva di più. Avevo paura della fine del mondo, avevo paura che i miei, se uscivano la sera, non tornassero più.  Probabilmente mi trasmettevano ansia;  mamma, se papà ritardava, andava ad aspettarlo in strada;  loro si portavano ancora appresso la angosce della guerra, delle sirene, delle corse notturne nei ricoveri.
La casa era comunque sempre piena di amici:  i miei avevano l' abitudine, e la conservarono sempre, di frequentare coppie più giovani di cui erano un pò amici e un pò mentori; avevano una natura goliardica, miravano a stupire, a girare tutto in risata, quando volevano essere severi, come l' educazione del tempo esigeva,  li sentivo poco credibili e ne ero disorientata. Ci curavano ma non facevano amicizie in funzione nostra: siamo cresciute in quegli anni con loro e i loro amici, il sabato si andava da zia Maria Pia, la maggiore delle sorelle di papà e là c' era salotto: zie, zii, amici di turno, discorsi colti, politica ( leggevano l' Espresso che era un foglio enorme).
Io ero disinvolta con gli adulti e timida con i miei coetanei; quando mi portavano a feste con bambini, mi rifiutavo di giocare e rimanevo aggrappata alla gonne di mia madre. A carnevale, alle feste mi toccavano sempre vestiti prestati, da maschio: cavaliere, principe, perché ero più alta della mia età, un anno mi vestirono da contadinella e si vede, nelle foto, questa bambina con un sorriso forzato, quasi una smorfia di pianto. A scuola no, a scuola ero disinvolta e felice, facevo amicizia volentieri, mi sentivo sicura.
L' affetto grande della mia vita, in quegli anni e per sempre fu zia Vittoria, la sorella di mia madre; era insegnante anche lei, prima per  me, poi tanti anni dopo per i miei figli è stata la compagna di giochi prediletta, la raccontatrice di favole ideale, l' amica del cuore, la delizia insomma.
Quando, a 42 anni decise, tra le ire della nonna, di sposare un collega più giovane di undici anni, me lo dissero con cautela e io urlai, piansi perché, dicevo, lei mi aveva promesso che non si sarebbe mai sposata.
Ho amato molto mia madre, riamata, con mio padre ho avuto un rapporto conflittuale ma di grande confidenza, ma quello che è stato per me zia Vittoria, non lo è stato nessun altro:  i viaggi, il teatro, le vacanze: fino a che ha avuto 92 anni, anche dopo che io ero venuta a Milano continuavamo a sentirci tutti i giorni; poi gli ultimi anni, per un ictus, li ha passati in casa di riposo. Quando, d' estate, venendo da Milano andavo a farle visita, mi guardava rapita,mi carezzava il volto; il suo per me è stato un affetto totale, ricambiato.
D' estate, dopo i bagni di Torregaveta, prendevamo una cabina a Coroglio. si andava al mattino, si tornava la sera; poi,  nel '56, le condizioni economiche migliorarono, dei nostri amici andavano a Vico Equense, paese della costiera sorrentina, prendemmo una casa in affitto per due mesi e mezzo ed ebbe inizio il mio amore per un luogo che ancora oggi per me è la casa.
Le villeggiature di una volta, quando per alcuni ricominciarono e per altri continuarono, erano completamente diverse da quelle che oggi si chiamano vacanze; eravamo più poveri ma paradossalmente più ricchi...Le case in affitto non costavano molto, anzi col tempo si cominciò ad affittare la casa per tutto l'anno, e poi c'erano quei lunghi, deliziosi periodi estivi, i ritmi di vita erano più  lenti.
Finita la scuola,verso fine giugno, primi di luglio ci si trasferiva; eravamo un gran numero di famiglie, i genitori amici o conoscenti tra loro, noi ragazzi in comitiva. Ci si tratteneva anche tutto settembre, a volte fino al 4 ottobre: ogni anno ragazzi nuovi si aggiungevano, c' era qualcuno che veniva per un periodo, poi andava altrove, ma gran parte di noi rimane ancora fedele. A settembre con i primi freddi, smontavano le cabine di legno, ne lasciavano alcune per noi fedelissimi, gli spezzoni delle comitive si riunivano e si diventava amici, salvo l'anno seguente tornare a luglio ciascuno col proprio gruppo.
Peppino di Capri cantava "Voce ' notte", NicoFidenco " Legata a un granello di sabbia", ci si riuniva nelle case con il giradischi, si ballava, i famosi " balletti", dove nascevano e morivano amori estivi, si aveva grande libertà, di cui io, veramente, ho sempre goduto, perché i miei genitori nella loro concezione un po' goliardica, ma devo riconoscere, intelligente e lungimirante, dai quindici, sedici anni in poi ci diedero tutta la libertà che, forse, hanno le ragazze oggi e ci regalarono una splendida giovinezza.
Nel '60 lasciammo la casa di Fuorigrotta, che venne affittata e, in seguito, venduta e tornammo al Corso Vittorio Emanuele. La nonna milanese, materna aveva continuato ad abitare là e noi affittammo una casa di fronte alla sua. lei venne ad abitare con noi e dopo due anni anche zia Vittoria e suo marito si trasferirono nel palazzo. L' incubo di Fuorigrotta era finito, io cominciai a settembre il quarto ginnasio e a riempire pagine del mio diario segreto; la casa era bella, luminosa affacciava sul panorama di Napoli , quello da cartolina;èstata la casa in cui è morto mio padre, in cui sono nati i miei figli, che ho lasciato nell' 87 per venire a Milano.
 In quella casa il mio carattere migliorò, gli anni erano quelli belli i 60, i capelli cotonati, il miracolo economico, l' automobile, la nostra fedele Rosa, cameriera che mi aveva visto nascere e che morì in casa nostra. Intorno un mondo che prometteva benessere e amore: Papa Giovanni, Kennedy presidente negli Stati Uniti, le vacanze estive, d'inverno studio e qualche balletto.
Ci fu nel '63 la tragedia di Dallas e la morte del Papa buono, ma era comunque un' epoca che sembrava promettere tutto; così arrivammo al '65, anno della mia licenza liceale e dell'iscrizione all' Università.















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sabato 5 giugno 2010

La scuola media e il liceo


Fino al '6o -'61, dopo l' esame di licenza elementare, se si voleva accedere alla scuola media, quella con il latino, bisognava sostenere l' esame di ammissione. Era difficile, bisognava portare un programma che comprendeva tutte le materie studiate alle elementari, inoltre un certo numero di poesie e brani di prosa a memoria e alcune biografie di personaggi famosi.
C'era un primo giorno di scritti in cui si svolgeva un tema, un altro dedicato alla matematica e poi gli orali. Tutto avveniva presso la scuola media nella quale ci si sarebbe iscritti e si veniva esaminati dai professori delle medie. Se non si passava, si andava alla scuola di avviamento professionale al lavoro, una specie di serie B. Mi preparò mia nonna, quella milanese, la mamma di mia madre, insegnante anche lei, che, avendo un cognome diverso dal mio, poteva firmare il programma da presentare. Mi avevano iscritto in una scuola pubblica; ma quell'anno, a causa dell' elevato numero di alunni e dello scarso numero di scuole, iniziarono ( e sarebbero durati quasi 20 anni ) i tremendi doppi turni: si andava a scuola per tre giorni di mattina e tre di pomeriggio e altrettante classi facevano il contrario; di conseguenza ogni scuola poteva contenere un numero doppio di alunni. Conciliaboli in famiglia, la nonna promise il suo aiuto economico, io sostenni l' esame di ammissione, brillantemente,  presso la scuola statale e poi fui iscritta in un prestigioso istituto privato di suore francesi che mamma, zie e nonne di entrambi i rami della famiglia avevano frequentato da piccole
Ho amato molto quegli anni,  ma non ho mai perdonato a mia madre questa sua incoerenza: da una scuola normale, dove c' erano i bravi e gli asini, i ricchi e i poveri,  il figlio del medico e la compagna che mi chiamava " Quattr' uocchie",  mi trovai in un ambiente rarefatto, frequentato dalla nobiltà napoletana. Noi eravamo una famiglia di origine elevata, ma di condizioni economiche normali, con una domestica, una casa di tipo borghese, di cinque camere e accessori e io, di colpo mi trovai a dividere il banco con figli di principi, conti, grandi industriali, una casta dove sembrava che tutti conoscessero tutti, da sempre.
Non provai alcun tipo di disagio, allora;  il mio rendimento scolastico era molto alto e le compagne gentili nei miei confronti , le occasioni di vedersi fuori scuola erano poche: a quei tempi, d' inverno si stava a casa e si studiava. Era in estate, durante le lunghe vacanze al mare che cominciavano a giugno e finivano a settembre, che godevamo di più libertà;  si usciva a Vico con gli amici della " comitiva",  tutti ragazzi che i nostri genitori conoscevano benissimo perché figli di loro amici.
In realtà il senso di aver perso irrimediabilmente qualcosa, il chiasso, i primi scioperi,  la casualità, lo specchio della vita che è la scuola pubblica,  pur con tutti i suoi difetti e le sue carenze, l' ho avvertito dopo, quando ho insegnato a mia volta. Credo di averla goduta fino in fondo e amata tanto proprio per questo. perché mi era mancata negli anni dell' adolescenza.
A " Maria Ausiliatrice", così si chiamava la scuola, le pareti erano tinteggiate di un pallido verde, colore scelto perché riposasse la vista;  al mattino, prima delle lezioni, mettevamo il velo e si andava in cappella per la preghiera;  entravamo divise in due file e ci si inginocchiava e ci si rialzava al suono di una piccola nacchera di legno che la suora faceva schioccare, poi le ore di scuola,. Una volta a settimana, la messa, dopo la quale si andava in refettorio a fare colazione con latte e cioccolato con brioche. Ogni mattina, in classe veniva dato un quadernetto dove, chi voleva, segnava la merenda preferita per l' ora di ricreazione ( in genere pane e prosciutto o pane e salame, una barretta di cioccolato); durante l' intervallo venivano distribuite dalle bidelle: ogni classe il suo cestino.
Avemmo sempre insegnanti eccellenti, le suore erano moderne e disponibili al colloquio; nonostante ciò quel meraviglioso senso di caos che la scuola pubblica ti regala,  mi è mancato. Eravamo comunque paganti e, per questo stesso,  necessitavamo di cure particolari.
Ogni quindici giorni veniva data,  a chi aveva voti alti una spilla: " la decorazione",  blu se non avevi 10 in condotta, rossa se lo avevi. Alla fine del trimestre chi aveva ottenuto tutte decorazioni rosse aveva un fiocco rosso con una croce che si chiamava" croce di eccellenza " e veniva ostentata sulla divisa per tutto il trimestre successivo. I miei voti erano alti, come disciplina lasciavo molto a desiderare: credo, forse di averla avuta,  in otto anni,  una volta e basta.  Portavamo una divisa che era cucita in una delle migliori sartorie di Napoli:  gonna blu con piegone davanti, camicetta bianca, pullover a giro collo blu d' inverno, cardigan blu in primavera, scarpe blu, tutte dello stesso modello e uno scamiciato azzurro che faceva da grembiule e, credo, al liceo non portammo più. Alla fine del trimestre ci si riuniva nella cappella dell' edificio vecchio e, alla presenza di professoresse, suore, madre preside e madre superiora, venivano chiamate una per volta, le prime della classe in ogni materia. Alle medie, tranne che in ginnastica, io ero prima in tutto; al ginnasio, fortunatamente,  rientrai nella norma. Non che studiassi molto, anzi, mi veniva facile, avevo memoria ,  in poco tempo facevo i compiti e, se potevo, aiutavo. Durante tutto il liceo ho sempre svolto,durante il compito di italiano in classe tre temi :  il mio e due per delle mie compagne dietro che aspettavano con pazienza che venisse il loro turno.
Ero simpatica alle altre, non perché fossi brava,  ma per la mia fantasia inesauribile nell' organizzare scherzi e burle innocue di ogni tipo. Da piccola ero stata una bambina timida e piena di paure, l' adolescenza me le tolse tutte.
A fine anno c' era la festa,  il 24 maggio, il giorno di Maria Ausiliatrice. Iniziava con la messa alla fine della quale si cantava l' inno " A toi mon coeur, Marie Auxiliatrice", poi si preparava la " kermesse"; ogni classe organizzava un suo banco di vendita,  giochi a premi,  pesche di beneficenza:  i biglietti erano acquistati da genitori e parenti indulgenti e generosi,  il ricavato andava ai poveri. Una ragazza : Anna M, di grande famiglia, bella e dolce che ora è anziana e molto malata, suonava la chitarra: cantava sempre " Lisbona antica", un anno cantò: " Non arrossire";  le suore si mostrarono sconvolte dall' audacia del testo.
Iniziavano i primi scioperi,  gli alunni del vicino liceo scientifico " Mercalli ", un anno tentarono un assalto alla scuola per convincere noi ragazze a sfilare: le suore, da sopra i muri, li cacciarono a scopate.
Quando, anni prima, mia mamma aveva frequentato la stessa scuola, le suore erano tutte francesi,  negli anni 60 ne erano rimaste poche:  Mère Marie Agathe, vecchissima e rossa di capelli, che chiamava tutte noi " mon petit",  Mère Marie Josephine che era la maestra di canto e aveva un metodo tutto suo per decidere se eri intonata o no, le altre tutte italiane. Anche tra le suore c' era la graduatoria:  quelle che insegnavano erano Madri, quelle addette a servizi manuali erano suore.
Pochi anni dopo la mia maturità, la scuola chiuse per carenza di vocazioni: le ultime tre madri rimasero a vivere insieme, una di loro, pur rimanendo suora, riprese il suo nome da laica e continuò a insegnare matematica e fisica nelle scuole statali.
Quando insegnava a noi era giovane, noi la vedevamo già adulta :  la chiamavamo " Monaca di Monza" perché ci interrogava con curiosità insistente sui nostri primi amori...chissà!
Avevamo anche insegnanti laiche, tra le quali alcune bravissime che poi passarono alla scuola statale: al ginnasio avevamo una professoressa di lettere della quale dicevamo " E' una vecchia zitella "; aveva 25 anni...
Io, a volte, andavo a studiare da compagne: case principesche, servitù in livrea, un mondo sconosciuto che non mi imbarazzò mai, ma che non cercai mai di condividere, come facevano altre del mio livello che cercavano di farne parte. Con la fine del liceo decisi di ritornare al mondo normale a cui ero abituata e ruppi, semplicemente, qualunque rapporto.
In quarto ginnasio eravamo 32, arrivammo in terza liceo in 18. La nostra, essendo l'unica terza, veniva associata alle terze del vicino liceo " Umberto", il liceo statale della Napoli bene. Molte delle mie compagne erano fidanzate con ragazzi che avrebbero sostenuto l' esame con noi:  alcuni si sono sposati e dei matrimoni continuano ancora.
Io ero tra le migliori e iniziò la caccia ad accaparrarsi le brave per studiare insieme: io studiai con Grazia L.; sua madre era principessa, suo padre conte, quando studiavamo a casa sua era una goduria per me il fatto che il cameriere ci servisse la colazione a letto, più complicato era a pranzo, quando il cameriere veniva di lato e io dovevo servirmi dal piatto di portata. Quando era lei a venire a casa mia, mi rendevo conto che non c' era confronto, ma la cosa non mi disturbava più che tanto; la nostra era una differenza economica più che di nascita, essendo la mia famiglia una delle più note a Napoli,  io poi non avevo incertezze; credo di non essermi mai, nella vita, sentita inferiore ad altri, diversa ma mai inferiore. Qualche anno fa ho parlato con una compagna di classe che vive anche lei a Milano, anche lei di grande famiglia con quei cognomi che non finiscono mai e le ho chiesto che ricordo avesse di me, da ragazza;  mi ha risposto che mi invidiava perché sembravo non aver paura di niente: forse era semplice sicurezza in me, nelle mie capacità, l' annettere importanza alle cose che veramente contano. Finiva che, forse per reazione, ero io ad essere, seppure cordiale, distaccata e come superba nei loro confronti.
Quando studiavamo per la maturità, quella di tanto tempo fa, con quattro scritti e tutte le materie orali," si facevano le nottate", era quasi un rito di iniziazione  studiare la notte, un segno tangibile dell' esame di maturità.
Mio padre, che Dio lo benedica, ci procurava le sigarette: fumavamo le Mercedes quelle nel pacchetto piatto, da dieci. Mio padre era anticonformista, ci ha regalato la libertà in anni in cui nessuna ragazza era libera...a Napoli, poi.
Per la festa di fine anno scolastico prenotammo un nigth club sofisticato, invitammo le insegnanti ( quelle laiche), chi aveva il fidanzato, lo portò. So che in quello stesso locale hanno festeggiato il ventennale e il trentennale: io non sono mai andata. Era gente che si apparteneva, frequentavano le stesse feste, si sposavano tra loro, erano soci del Circolo dell' Unione, dalle cui sale si accedeva direttamente ai palchi del S. Carlo, senza andare in strada...semplicemente non sentivo mio quel mondo.
Nei primi anni di Università, quando la contestazione esplose, le più arrabbiate erano loro, le trovavi sempre a volantinare, in prima fila nelle assemblee, vissero anche quello come un gioco, senza mai abbandonare la loro casta.
Ho rivisto qualcuna di loro, ho risentito Grazia poco tempo fa: da giovani si è duri nei giudizi, avevano un bel ricordo di me, migliore, forse del mio nei loro confronti.
La maturità venne e passò, una delle compagne in autunno si sposò, ci disperdemmo, cominciarono gli anni folli e divertenti dell' Università.

I MIEI RICORDI



Sono tanti  i miei ricordi e vorrei poterli fissare, fermare, condividere con altri o anche solo con me stessa. Qual è il primo ricordo? Una parete di un' aula buia. Per dare luce, sulla parete qualcuno aveva dipinto un ramo di albero e un volo di rondini ma la stanza restava buia.. Era un' aula della scuola elementare che frequentavo e dove mia madre insegnava.
 Si chiamava "E. Fuà Fusinato", dove E stava per Erminia. Credo fosse la moglie di un poeta, Fusinato e che lei fosse una direttrice e ispettrice scolastica.
 Eravamo ospitati  in un edificio fatiscente, una pia istituzione, che si chiamava " Istituto Mondragone", situato nell' omonima piazzetta nel centro di Napoli, dove, tra vicoli intricati, dal CorsoVittorio Emanuele si scendeva a Via Chiaia : due vie di signori con in mezzo un dedalo di stradine poverelle.
La scuola era pericolante, che vuol dire che poteva crollare tutto da un momento all' altro; ma la cosa veniva detta con la rassegnazione mista a una sorta di indifferenza che è tipica del popolo napoletano. Come dire"  Che ce putimm' fà?"  L' ho sentito dire sempre: quando ero alunna e dopo, fino a che mia mamma andò in pensione nel '73.
 .L' istituto"Mondragone" ospitava pie donne, quasi delle suore ma non proprio: tra queste ce n' era una che mi preparò per la Prima Comunione. C' era anche, ospite là fin da piccola, una sordomuta, sopravvissuta al terremoto di Messina; io, terrorizzata da qualunque tipo di malformazione, avevo paura e scappavo quando vedevo questa poverina che si esprimeva con mugolii..
 La scuola elementare aveva con l' istituto una specie di convenzione, per cui, dopo l'orario scolastico, una volta a settimana, noi bambine andavamo in un refettorio dove ci venivano impartite lezioni di cucito, odiavo quelle ore: punto a giorno, punto erba, punto croce; che schifezze uscivano dalle mie dita riluttanti!
L' edificio era una sovrapposizione di costruzioni: c' era un primo piano, poi un secondo che prendeva luce da un corridoio il quale si affacciava sul refettorio dove cucivamo, poi,  tramite una scala tutta tornanti ( penso alle attuali norme di sicurezza), si accedeva a un terzo piano luminoso dove c' era la mia classe.
Quella di mia madre, invece, era al prima piano: lei era  LA MAESTRA.. Era da tanti anni in quella scuola da potersi scegliere l' aula, in base a non so quali criteri:  non era la più bella, era nel lato più fatiscente della scuola, ma a lei piaceva. Mia madre dava il "tu " alla Direttrice, perchè erano state colleghe, ma non la chiamava per nome , solo Direttrice e il tu.
Mia madre era brava, molto, le sue classi vincevano tanti concorsi, l' hanno fatta anche Cavaliere per meriti scolastici, amava gli alunni e loro l' amavano, ma urlava; anche io, negli anni seguenti mi sarei distinta per il tono stentoreo ma ricordo che appena si entrava nella scuola, si sentiva la voce di mia madre.
Ho fatto la prima elementare a tre, quattro e cinque anni; i primi due, semplicemente perchè non avendo dove lasciarmi e avendo io rifiutato, rotolandomi per terra, di frequentare l' asilo, mi portava con sè e mi faceva sedere in un banco; a quattro anni  leggevo e scrivevo, a cinque, sempre trascinandomi, mi costrinsero a fare la prima regolare.
 A Napoli tutti fanno la prima a cinque anni, non solo ora che si può, da sempre. Se si conosceva una maestra venivi ammessa come uditore ( tremo pensando ancora alle norme di sicurezza), poi alla fine della prima si sosteneva un esame e si andava di diritto in seconda.
Quando io feci l' esame di prima, così come quando diedi la licenza elementare, mia madre, per correttezza, uscì dalla scuola.
L' utenza della scuola era mista: c' erano figli di signori e bambini che venivano dal Pallonetto S. Lucia, un intrico di vicoli e scalinatelle che dall' Egiziaca a Pizzofalcone portava a S. Lucia; i più intelligenti di un popolo intelligente: così li definiva mia madre, perché, diceva, erano cresciuti sul mare.
La mia maestra si chiamava Carolina Rossi Bruno, gran signora, brava maestra : quando qualcuno non sapeva la lezione tirava schiaffoni che lasciavano l' impronta delle dita ( a me no perché brava e figlia di collega).
Nessuno si sognava di contestare, anzi i genitori dicevano " Signò vattitele" invitavano la maestra a picchiare i figli.; io avevo una compagna che mi chiamava " Quatt'uocchie" perché  io portavo gli occhiali, ma non l'ho mai sentita come un' offesa, era un modo di definirmi.
Ai bambini poveri veniva data la refezione, cioè la merenda gratuita: panini a rosette, formaggini gialli americani e la cotognata che era una marmellata di cotogne, ma dura. La maestra divideva la refezione e la dava anche a bambini che sapeva essere poveri ma non tanto da averne diritto.
 Io invidiavo molto i bambini poveri perché l' avrei voluta ma non mi spettava.
Avevamo una maestra di canto, vecchia e zoppa che si chiamava signorina Cattedra: nell' ora di canto ci insegnava  l' Inno nazionale, quello di Mameli, che cantavamo nelle occasioni importanti  e " Va pensiero", non ricordo altre canzoni.
La mia era una classe mista:  fu l' unica della mia vita perché medie e superiori le ho frequentate dalle suore, ma questa è un' altra storia.