sabato 24 maggio 2014

IO, MILANO, I ROM E ALTRO.

Quando sono arrivata a Milano nell' 87 venivo da anni di gavetta come supplente ( a Napoli si usava così) e da più di dieci anni di ruolo a Melito di Napoli, comune dopo Secondigliano con una realtà complessa, ma con colleghi stupendi e alunni meravigliosi che ancora adesso mi scrivono su fb.
Arrivata qua, con l' ing che aveva un posto importante, bloccarono i trasferimenti nella scuola.
Io ero titolare a Melito per cui diventai la favola del Provveditorato di Milano.
A ogni inizio di anno scolastico mi piazzavo là e non me ne andavo finchè non mi davano il trasferimento per un anno in zona, altrimenti avrei dovuto lasciare la famiglia e prendere servizio a Melito.
Quello che per molti potrebbe sembrare un disagio io lo benedico ancora oggi.
Durò tutto tra i cinque e i sette anni.
In quel tempo rifeci la gavetta, anche se da professoressa di ruolo: mi capitarono due scuole per volta e correvo da una parte all' altra, scoprii che nelle periferie milanesi ci sono realtà che non hanno nulla da invidiare a Scampia.
Ricordo una prima media nella quale avrei dovuto insegnare storia e geografia e invece insegnavo le lettere dell' alfabeto a ragazzi figli di siciliani i cui genitori vivevano da quarant' anni qua e firmavano con la croce.
Insomma posso dire che quegli anni mi fecero conoscere veramente la città.
Immagino ancora quanto sarei stata deprivata se avessi avuto il trasferimento subito e in una scuola " bene " per giunta.
La mia esperienza sarebbe stata falsata.
E nel frattempo ci furono i rom.
Ho insegnato per due anni ai rom nell' ambito di un progetto che prevedeva un' insegnante " di sostegno" per i ragazzi di quella etnia inseriti in scuole medie.
Il primo anno conobbi Mario e Morena, fratello e sorella.
La madre era rom, il padre napoletano, ex stanziale e ci teneva che i figli frequentassero la scuola.
L' amore tra noi fu immediato e spontaneo; il progetto era strutturato bene.
Al mattino passavo qualche ora con loro in classe o da soli; il pomeriggio c' era una specie di doposcuola, tenuto da me, a cui erano invitati i ragazzi della classe perchè così si favorisse l' integrazione.
Le cose con gli alunni e specialmente con Mario e Morena andarono benissimo.
Meno buoni furono i rapporti con la titolare di lettere della classe che mi percepiva come fastidiosa e interferente.
Lo ero e molto.
C' era una preside brava e strana che invece dei giudizi ci faceva colorare con tinte diverse i quadratini del registro: ogni voto o giudizio aveva il suo colore.
Anche a lei diedi fastidio; non sono mai stata molto " comoda" come insegnante.
Imparai già da quell' anno che il fatto che io fossi di ruolo non lo capiva nessuno: ero l' insegnante dei nomadi quindi nomade anche io.
E fin qua mi andava bene.
A casa dovetti sottostare alla richiesta fattami gentilmente dalla famiglia di non dare il mio numero di telefono agli alunni cosa che ho sempre fatto in qualunque scuola, ma con i nomadi si sa, meglio essere prudenti.
I ragazzi abitavano con i genitori in una roulotte, ma vicino alla scuola.
Mario quando andavamo in gita non usava il biglietto del metro e scavalcava i " tornelli".
Morena il sabato e la domenica era abituata a chiedere l' elemosina e ora che era inserita in classe si vergognava, ma la madre glielo imponeva.
Il pomeriggio filò tutto liscio fino al giorno in cui un ragazzo fece una festa a casa sua e invitò tutti i compagni tranne i due rom.
Io dissi al ragazzo che dal giorno dopo non era più invitato al nostro doposcuola.
Ma sono gocce d' acqua nel mare.
L' anno dopo la preside non mi volle più e il progetto non si fece, ma andai a Buccinasco, un paese sui Navigli dove dovevo " curare" tre ragazzi.
Erano " sinti lombardi" una popolazione praticamente stanziale con un passato di giostrai e arrotini che erano accampati da anni nella zona e che parlano il dialetto milanese.
Qua i ragazzi erano molto più aggressivi e meno collaborativi dei due miei amati fratelli dell' anno precedente.
Dal più piccolo, che aveva meno di quattordici anni, ebbi lezioni sui furti di appartamenti; quello di mezzo si masturbava pensando di turbarmi; quando scoprì che la cosa non mi faceva nè caldo nè freddo, smise.
Con il più grande: Valerio ebbi i rapporti migliori.
Mi raccontava i litigi che succedevano nel campo; un giorno gli " fregai" la calcolatrice; si stupì molto che rubassi una cosa a lui, ma io gli risposi che se lui era zingaro io ero napoletana.
Con i colleghi fu difficile: seppi cosa si prova a sentirsi rom.
Insegnanti precarie che avevano dieci anni meno di me venivano nella stanzetta dove studiavo con i ragazzi e " sbattevano" sulla cattedra fogli con esercizi ordinandomi di farli eseguire.
Fu veramente un anno duro.
Continuai a vedere Mario, Morena e i loro fratelli minori.
Avevamo appuntamento sotto scuola e io portavo loro regalini per Natale.
Iscrissi il ragazzo a una scuola professionale vicino S. Siro dove imparò a fare l'imbianchino e trovò anche lavoro.
Poi un giorno, per scommessa con un compagno, rubò una radio da una macchina e fu espulso.
Poi trovò e perse vari lavori, poi il padre morì e con la madre tornarono per sempre al campo nomadi.
Anni dopo, all' oratorio della nostra parrocchia la squadra di mio figlio Paolo incontrò una squadra del campo nomadi.
L' allenatore era il marito di Morena; mi diede un numero e rimanemmo d' accordo che lei avrebbe aspettato alle 15 una mia telefonata.
Durante la partita Paolo si slogò una caviglia e passammo il pomeriggio all' ospedale; non era ancora tempo di telefonini e non potei chiamare.
Mi sentii sconfitta: ancora una volta l' avevo delusa e avevo fallito.
Raramente ci sono ragazzi cattivi; dipende quasi sempre da noi adulti, dalla convinzione che ci mettiamo,dai pregiudizi, dal tempo, dall' amore, a volte dalle circostanze.
A volte si vince, spesso si fallisce.
E per chi, come me, ha amato questo lavoro, il fallimento brucia e non si dimentica.

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La foto è di Ferdinando Kaiser
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