martedì 23 aprile 2013

PAOLO MEREGHETTI E " IL GATTOPARDO" :CONSIDERAZIONI E RIFLESSIONI.

L'altro ieri in un articolo sul Corriere, che riporto integralmente, Paolo Mereghetti, il grande critico cinematografico, sostiene una tesi che io da anni porto avanti.
Quando il romanzo uscì sembrò, e in parte era, una novità assoluta.
In realtà, e molti critici lo sostengono è un bellissimo romanzo decadente, dal linguaggio opulento e ricco di metafore, di profumi, di malinconia.
Parla di un epoca che sta per morire e di un uomo, il Principe, che ne ha assoluta consapevolezza.
Il film, pochissimi anni dopo, fu un enorme successo e un capolavoro e, a una prima lettura, rivela una grande aderenza al romanzo.
Mereghetti sostiene e io sono d'accordo che la grande trasformazione da libro a film sta nell' aver eliminato del tutto gli ultimi due capitoli.


Il primo narra 20 anni dopo la morte del Principe e, in certo qual modo, viene anticipato, nel film, dalla malinconia dell' uomo durante il ballo, dal ritorno all' alba e dal presagio di morte che lo pervade.
Manca è vero del capitolo della morte l' immagine delle " pagliuzze dorate " i momenti di felicità in una vita, tutto sommato, qualunque.
Ma la grande " rimozione " è quella dell' ultimo capitolo che si svolge 50 anni dopo, nel 1910.
Sono ormai rimaste in vita solo tre sorelle Salina: Concetta e altre due.
Nella prima parte del capitolo che si intitola :" La fine di tutto " è atteso un sacerdote che controlli l' autenticità di tantissime reliquie che le tre sorelle, facendosi gabbare da qualcuno, hanno ammucchiato nella cappella di famiglia.
Quasi tutte si rivelano false; il sacerdote le porta via, ordinando di distruggerle e annunciando che la cappella andrà riconsacrata.
Ecco che vediamo che i Salina hanno perso gran parte del loro prestigio come il Principe prevedeva.
Nella seconda parte del capitolo Angelica, ormai anziana, si reca alla villa con un vecchi amico di Tancredi che ormai è morto, il senatore Tassoni.
Sono iniziati i preparativi per celebrare i 50 anni dall' impresa dei Mille.
Tassoni nel parlare a Concetta le rivela che un episodio raccontatole la sera della cena in cui Tancredi aveva conosciuto Angelica, era stato da lui inventato di sana pianta per far irritare scherzosamente la cugina e lei ci era cascata.
Il giorno dopo, durante la visita al convento della loro antenata, la Beata Corbera, Tancredi aveva in vari modi indiretti, implorato il perdono di Concetta, ma di fronte all' orgoglioso silenzio di lei, da quel pomeriggio, aveva cominciato a corteggiare Angelica.
Concetta capisce dopo anni e anni di sofferenza di cui aveva incolpato il padre e il cugino che la colpa della sua solitaria vecchiaia è solo il suo testardo orgoglio dei Salina.
Ordina alle domestiche di gettare via il suo corredo, ormai vecchio e ammuffito e la salma di Bendicò, il cane imbalsamato che le ricordava quei giorni.
L' ultima immagine del romanzo è quella del cane che, cadendo giù, sembra quasi agitare le zampe per finire poi, inerte mucchietto di peli, a terra.
Mereghetti sostiene che, abolendo gli ultimi due capitoli dal film, Visconti trasforma un " romanzo di destra in un film di sinistra".
Io ho sempre pensato che, pur essendo il film bellissimo, il taglio degli ultimi due capitoli ne fa cosa diversa rispetto al libro, e toglie molto alla figura di Concetta ( una giovane ma già brava Lucilla Morlacchi), che nel romanzo ha ben altro spessore.

CINEMA NEL SAGGIO DI ANILE E GIANNICE LA TRASFORMAZIONE PROGRESSISTA ATTUATA DA VISCONTI
La svolta del Gattopardo
Come un libro di destra diventò un film di sinistra

Ci sono dei romanzi (e dei film) capaci di dar forma nelle loro pagine (e nei loro fotogrammi) alle tensioni che attraversano la società. E ci sono dei saggi (e dei saggisti) che quello «spirito dei tempi» sanno poi ritrovarlo e spiegarlo. E soprattutto ci aiutano a capirlo meglio. È il caso di Operazione Gattopardo di Alberto Anile e Maria Gabriella Giannice, che ripercorrendo la nascita del romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, e la sua «tormentata» fortuna e la gestazione altrettanto «tormentata» del film che ne trasse Luchino Visconti (ma anche il suo successo trionfale e «annunciato»), hanno saputo restituire non solo l'importanza e la bellezza di due opere capitali per la cultura italiana, ma soprattutto i rapporti che in quegli anni il romanzo uscì in libreria l'11 novembre 1958, la prima del film fu a Roma il 27 marzo del 1963 legavano a doppio filo letteratura, critica, cinema e soprattutto politica.Sì, perché il merito principale del libro di Anile e Giannice è proprio quello di leggere ciò che c'è stato dietro un caso editoriale e una produzione miliardaria, svelando, e soprattutto mettendo in rapporto tra di loro, invidie letterarie e ambizioni egemoniche, analisi storiche e fascinazioni nobiliari, diatribe critiche e fantasie hollywoodiane, ricostruendo e indagando con la passione dei divulgatori e l'abilità dei giallisti come un romanzo poco amato (per non dire di peggio) dall'establishment letterario divenne un caso e come un regista come Visconti «trasformò un romanzo di "destra" in un successo "di sinistra"».Da subito, infatti, la politica diventa l'interlocutore privilegiato di un libro che il suo autore non riesce nemmeno a veder stampato (muore a Roma il 23 luglio del '57), ma di cui raccoglie invece due dolorosi rifiuti editoriali (prima Mondadori e poi Einaudi, entrambi con l'avallo di Vittorini) fino a quando l'entusiasmo di Bassani convince la Feltrinelli a pubblicarlo. E se le prime recensioni sono favorevoli (come quella di Montale sul «Corriere»), i problemi nascono «a sinistra». La considerazione di don Fabrizio Salina sul «sonno siciliano», quel sottolineare la speranza che «tutto cambi perché nulla cambi», viene vista come il segno di una visione antistorica, contraria a ogni idea di progresso. E così i meriti letterari che in tanti sono disposti ad accreditare al libro passano in secondo luogo davanti alle accuse «politiche». Accuse che Leonardo Sciascia, da siciliano e comunista, si incarica di mettere nero su bianco, accusando il libro di «raffazzonato qualunquismo» e di «astrazione geografico-climatica» e il suo protagonista di «congenita e sublime indifferenza» verso il popolo. Seguito su questa strada da Franco Fortini, Alberto Moravia e poi da Mario Alicata, quest'ultimo con tutto il peso del difensore ufficiale dell'ortodossia marxista.Sono anni, ricordano con precisione Anile e Giannice, in cui la cultura ha un ruolo fondamentale nella lotta politica e Il Gattopardo diventa il campo di battaglia in cui si misurano schieramenti avversi, soprattutto quando, vincendo il premio Strega, umilia gli altri concorrenti, a cominciare da Pasolini.Il «contrordine, compagni», che finisce per imporsi con il crescente successo popolare (in otto mesi, 100 mila copie vendute), arriva dal più inaspettato dei «compagni di strada» cinematografici del Pci, il «conte rosso» Luchino Visconti. È lui che convince Goffredo Lombardo, patron della Titanus, ad affidargli il film, che all'inizio doveva essere diretto da Soldati e poi da Ettore Giannini. Ed è soprattutto lui che si «fa garante» di smussare le punte antistoriche del romanzo, riportandolo con i «consigli» di Alicata e Trombadori nell'alveo di una lettura «progressista» del Risorgimento. Tagli e innesti sono gli strumenti che Visconti, con i suoi sceneggiatori, mette in campo: da una parte qualche «plagio» da Verga (a partire dalla novella Libertà) e dai Viceré di De Roberto, dall'altra qualche sforbiciata (via la morte del principe di Salina, ma soprattutto via l'ultimo capitolo, sulla cui importanza Anile e Giannice dimostrano sapienza filologica e acutezza interpretativa) e il «reazionario» Lampedusa sembra rimesso nella carreggiata dell'ortodossia storicista.La battaglia ideologica diventa anche guerra produttiva, tra un regista sempre più esigente e un produttore che vede il budget alzarsi sempre di più (alla fine superò i due miliardi e 640 milioni, spingendo la Titanus sull'orlo del fallimento). Curiosamente però, si stemperano anche le «correzioni ideologiche» che avrebbero dovuto marxistizzare il romanzo.La fedeltà alle battute, alle situazioni, agli arredi, ai dettagli finisce per mascherare continui slittamenti ideologici, che culminano in cinque tagli «misteriosi» (perché mai davvero spiegati) con cui il regista accorcia la copia distribuita in Italia per presentarla al festival di Cannes (da 205 minuti a 185) e che da allora diventa la versione ufficiale del film. E che gli autori interpretano, verosimilmente, con una sotterranea, ma prepotente identificazione tra il percorso «proustiano» di Tomasi di Lampedusa e una parziale «riconciliazione con il proprio passato e con la propria idealizzata figura paterna» in Visconti. Che da allora, liberato dal suo «super-io gramsciano» (come scrive Goffredo Fofi nell'introduzione), dimenticherà sempre più l'impegno politico per aprirsi a una vena più personale e decadente

lunedì 22 aprile 2013

ERA L' ESTATE DEL '74 ( ALMENO CREDO )

D' estate si andava a Vico con i genitori, poi da là si partiva e viaggiavamo, noi ragazzi, per due o tre settimane.
Un anno, ( credevo fosse il '73 ma quell' anno andammo in Spagna e allora sarà il 74 o forse il '72; colpa del mio fidanzato tedesco, quel tale Alzheimer, ma non ha importanza).
Non avevamo soldi o forse non avevamo programmato in tempo un viaggio lungo: non ricordo i motivi.
Avevo un' amica, collega di Università che si sposò pochi mesi prima di me con un ragazzo anche lui da poco laureato in ingegneria.


Dopo si trasferirono a Matera; prima di partire da Napoli, 25 anni fa l' ho cercata per salutarla.
Insegnava lettere come me, aveva due figlie.
Anni dopo ho saputo che il marito è morto.
Non ho avuto, in quel caso, il coraggio di sentirla.
La mamma di lei era di Bagnaia, avevano là una casa di famiglia e ci invitarono.
Non ricordo se andammo a casa loro oppure se in una pensione; nemmeno chi eravamo e quanti del nostro gruppo.
Che strano con i ricordi: alcuni sono là stampati come accaduti ieri e altri vengono resettati salvo poi a ricomparire grazie, quasi sempre a una foto di Gennaro Espositoche fotografa l' " universo mondo"!
Di Bagnaia ricordo Villa Lante che è uno dei gioielli italiani poco noti forse rispetto alla sua bellezza.
Andammo anche a Viterbo dove c'è un quartiere medievale splendido e intatto, e a Civita di Bagnoregio, poi a vedere il Parco dei Mostri di Bomarzo.
Facemmo il bagno nel Lago di Bracciano, almeno credo fosse quello.
Quello che invece ricordo con assoluta precisione è il parroco di Bagnaia.
Era un vecchio integralista; il paese era pieno di cartelli con su scritto:" Madonnina mia prometto di non bestemmiare più " e altre cose del genere.
Mi avevano avvertito, ma mi stupii ugualmente quando lo incrociai in un negozio e ci apostrofò con energia perchè avevamo le minigonne che non erano poi tanto " mini".
Era ancora quell' angolo del Lazio che portava in sè il ricordo di essere stata parte dello Stato della Chiesa.
Furono comunque dei bei giorni anche perchè eravamo giovani.

domenica 21 aprile 2013

E SONO SOLO UN UOMO.


E' il titolo di una canzone religiosa, ma molto bella e che va bene anche per il laici.
Indipendentemente dalle nostre idee, penso che tutti noi " diversamente giovani e non" abbiamo, nell' arco di un mese, vissuto, pur in questo periodo storico abbastanza difficile e forse proprio per questo, eventi che ci vogliono secoli perchè ne capiti uno, figuriamoci due insieme.
Da una parte un uomo a capo di un impero di anime ( e non solo) non se la sente più di continuare, prende atto della sua fragilità e lascia il suo posto.

Viene eletto dopo di lui uno a cui si adegua alla perfezione il titolo della canzone e di questa nota: un uomo forte e insieme dolce, colto e al tempo stesso che sa parlare come un parroco di campagna e quello che dice va diritto al cuore di tutti.
Dall' altra parte in uno stato allo " sbando", viene chiesto a un uomo di quasi 88 anni, che ha compiuto il suo dovere fino in fondo e credo abbia il legittimo desiderio di dedicarsi alla sua vita privata, di rimanere, di continuare, di mantenere " a galla " la barca che sta per affondare.
E lui accetta, credo sinceramente per senso del dovere, non per altro, almeno a mio parere: ora lo chiamano re; anche lui " é solo un uomo" e di fronte a delle richieste pressanti ha preso una decisione che per molti di noi è una garanzia.
Altri la pensano diversamente e sono liberi come siamo liberi tutti di pensare quello che vogliamo.
Non volevo enunciare teorie: solo, invece di " acchiappare ricordi" come faccio di solito, raccontare un momento che, in futuro, comunque vada, ricorderemo di aver vissuto nel bene o nel male di questo nostro mondo imperfetto.
In fondo tutti noi " siamo solo uomini".
 

martedì 2 aprile 2013

TU, IO E ALTRE DONNE


Ti ricordo da sempre nel dipinto a olio, prima nel salotto di Napoli, poi qua a Milano.
Sei ritratta come usava nell' 800 per le signorine di buone famiglia: sulla fronte una piccola frangetta spartita al centro, divisa in minuscoli ricciolini, i capelli rialzati e raccolti sulla nuca, il volto adolescente serio e quasi imbronciato, forse nel tentativo di sembrare più adulta.
 Indossi una camicetta che al collo si arriccia in piccole pieghe, hai le maniche a sbuffo che si restringono ai polsi; sopra, un bolero nero e, all' altezza del petto, una margherita minuziosamente dipinta,  in mano un ventaglio.
Ti chiamavi Virginia Mauri un cognome che più milanese non si può ed eri la nonna di mia madre.
Nel 1882 sposasti Santino Chiaverri " giovane di studio"; nel contratto di nozze sono elencati i beni che gli portavi in dote: mobili  ( che in parte sono ora in casa mia e di mia sorella), gioielli, biancheria, tutto elencato in ordine; lui doveva essere di condizione sociale inferiore alla tua perchè, sempre nel contratto, viene ribadito che la dote rimarrà di tua esclusiva proprietà anche dopo le nozze.
Vi amavate molto; aveste due figli: Giuseppina, mia nonna e Alfredo.
 Nel 1991 tuo marito ti scrive da Messina, dove era agente di un' azienda " Fratelli Bossi ", come è scritto sulla carta intestata e ti scrive: " Grazie per le belle giornate trascorse, se si eccettua la malattia dei bambini; tu, del resto, nulla hai trascurato per rendere serene le nostre serate ". La nonna raccontava che con i figli eri abbastanza dura e intransigente.
Del prozio Alfredo, che ora è sepolto a S. Ambrogio, tra i caduti della Prima Guerra, si diceva che,da bambino, se gli veniva offerto qualcosa a casa di amici,  rispondeva:: " Ho già mangiato a casa, ho già bevuto a casa", frase che è rimasta per sempre nel nostro lessico familiare.
Nel 1900 al bisnonno Santino viene proposto di aprire una filiale dell' agenzia a Napoli; lo segue tutta la famiglia e andate ad abitare sulla collina del Vomero, in Via Morghen.
Cosa provasti tu, a lasciare la città nella quale eri nata per una dal clima diverso, ma nelle quale ti sentisti sempre estranea, non si sa; la nonna non raccontava molto.
Si sa, invece, che chiedesti al portinaio se c' era qualche garzone che portasse la spesa a casa;  lui rispose " Vene Cacaglia", che in napoletano significa balbuziente e  tu, da brava signora milanese accogliesti il ragazzo dicendogli: " Buongiorno signor Cacaglia".
Giuseppina si iscrive alle magistrali dove nel 1903 si diploma.
Dopo, i racconti si fanno confusi;  il bisnonno Santino muore, non si sa se per un infarto: mamma e zia Vittoria, parlavano, ma come per sentito dire, di un suicidio legato a dissesti finanziari, nemmeno loro sapevano con precisione, poco dopo muori anche tu, di un ictus, credo per il dolore di non poter continuare a vivere senza l' amore della tua vita.
Tre te e me una serie di donne forti, energiche, che hanno sempre preso la vita con amabile fermezza.
Mia nonna Giuseppina, tua figlia:  quando tu stavi male, corse a chiedere aiuto a un vicino di casa, prossimo alla laurea in medicina.
Si chiamava Leonardo Grossi, apparteneva a una famiglia di grossi latifondisti lucani;  si innamorarono, ma lui preferiva che i genitori non sapessero subito che sposava e una milanese per di più.
La nonna che a convivere non ci pensava nemmeno, volle il matrimonio in chiesa; per lo Stato erano concubini.
Nel frattempo lui si laureò, si arruolò negli alpini e, tra una guerra in Libia e la Grande Guerra, ebbero due figlie: Vittoria e Virginia, mia madre, che prese il tuo nome.
Nel frattempo lui ebbe il buon senso di sposarla anche civilmente perchè il 13 luglio del 1916, a soli 28 anni, morì, mentre medicava un ferito in tenda sul Carso, per lo scoppio di una granata.
Ci sono delle foto di quei mesi:  la nonna alta, bella, tutta vestita di nero, raffinata con il volto impietrito e le due bambine con abitini bianchi e fusciacche nere in vita, vicino a loro, la governante.
La nonna non si perse d' animo: andò in Basilicata, rivelò alla famiglia Grossi di essere la moglie del figlio, prese possesso dell' eredità: campi, greggi e denaro, vendette tutto ai cognati, tornò a Napoli, tirò fuori il diploma di maestra e insegnò per tutta la vita.
Il nonno che l' amava molto e che era gelosissimo, aveva scritto un testamento nella quale la nominava tutrice delle figlie a patto che non si sposasse più: credo che lei non abbia mai avuto un altro amore oltre lui.
E' morta a 91 anni, dopo più di sessanta di vedovanza: era un gendarme; quando le figlie, maestre a loro volta, si sposarono, espresse  tutto il suo dissenso chiedendo loro come potesse venire in mente un' idea del genere; quando a 70 anni dovette andare in pensione protestò contro lo stato, perchè, disse, mandava a casa la gente ancora giovane. Quando, negli anni 60 sulle riviste, uscirono i primi articoli che parlavano velatamente di sesso, incollava le pagine perchè noi nipoti non le leggessimo
Zia Vittoria ebbe un fidanzato ad Avellino dove insegnava, che morì di polmonite;  poi nel 1954 sposò, tra lo scandalo generale, un collega di undici anni più giovane di lei.
Lui era archeologo: sono stati sposati per 40 anni e lui ha sempre detto " Chissà chi baderà a me alla tua morte".  Lei gli è sopravvissuta per quattordici anni,  tempra di ferro, è morta a 97 anni: è stata la nostra amica, la nostra zia cara, non avendo avuto figli ha cresciuto i nostri, ha giocato con loro dopo che con noi, è stata la delizia di due generazioni.
Mia madre, Virginia vinse il concorso magistrale a 18 anni e andò a insegnare per i primi quattro in un paese sperduto del Cilento dove si arrivava a dorso d' asino; dopo la guerra, a casa di una sua amica conobbe il fratello di questa, mio padre, che ritornava dalla prigionia; si sposarono presto, quei matrimoni poveri del dopoguerra e andarono in viaggio di nozze a Ischia per una settimana; anche lei è stata una gran donna, ha lavorato per tutta la vita, ha supportato mio padre, ha tampinato noi perchè ci laureassimo e lavorassimo presto.
Mia sorella, anche lei professoressa, anche lei con due figli,  più piccola di me, ha combattuto e vinto la battaglia contro il cancro con una levità e una leggerezza che, qualche volta le ho invidiato.
Io, mio marito e i miei figli, con mia madre che ci ha seguito, nel 1987, dopo quasi un secolo, abbiamo lasciato una Napoli dove ormai era sempre più difficile vivere e siamo ritornati dove da te tutto era cominciato; .da quasi due anni è nata una nuova Virginia, figlia di mio figlio, che porta il nome tuo e di mia madre, come se si chiudesse un cerchio, dopo più di un secolo una nuova Virginia milanese.
A volte guardo il quadro e penso che, alla fine, sei ritornata a casa.

lunedì 1 aprile 2013

PASQUETTA E L' OCA GIACOMINA


A Pasquetta si " doveva " andare in gita così come la notte di Capodanno si " doveva " tirare l' alba; a Pasquetta si mangiava anche il sartù di riso.
Per molti anni andammo a Cusano Mutri; un ragazzo aveva una casa là e organizzava una caccia al tesoro.
Un anno mia sorella o io ( non ricordo chi delle due) vinse un' oca come premio.
Un' oca vera e viva che portammo con noi a Napoli meditando cose strane come metterle un guinzaglio e portarla a passeggio a Via dei Mille.

La chiamammo Giacomina e, per qualche tempo la tenemmo sulla terrazza di casa.
Poi la nostra domestica " storica " Maria Gambino ( che come Pietro Taricone viene sempre citata con nome e cognome), decise di portarla al suo paese: Fontanarosa in provincia di Avellino.
Credo che fu mia madre a convincerla: non amava tenere in casa animali in genere, da cortile poi...
Tentammo inizialmente di opporci alla separazione ma con scarso successo e, credo, senza troppa insistenza.
Per qualche tempo Maria quando, raramente andava a casa, ci portava notizie di Giacomina.
Un giorno a casa nostra arrivò a tavola un piatto " imprecisato" ; non era pollo, non era capretto e nemmeno coniglio.
E' vero che la mia nonna milanese mangiava ( ma lei sola ) rane e cacciagione eppure...
Nessuno dei nostri seppe mantenere il segreto e prima di assaggiare un solo boccone scoprimmo che avremmo mangiato la " nostra Giacomina".
Era successo che al paese avevano scoperto trattarsi di " oca maschio" quindi improduttiva.
Una bocca in più, insomma.
Maria Gambino, fedele nei secoli come i carabinieri, l' aveva soppressa, spennata e portata a casa nostra dove era stata cucinata.
Mia sorella e io piangevamo come fontane e ci dicevamo a vicenda che sarebbe stato come mangiare una di noi.
Con dignità ci alzammo e abbandonammo la tavola.
I nostri genitori, la nonna e Maria Gambino i " senza cuore" mangiarono l' oca Giacomina.