martedì 26 febbraio 2013

PRENDIAMOLA CON ALLEGRIA!


Prendiamola con allegria!!!
Stamattina, ore 6.
L'ing legge il Corriere che arriva all' alba; io sveglia ( dopo aver versato il caffè ovunque) accendo la tv e cerco di vedere chi ha vinto gli Oscar.
Lui non sopporta la televisione di mattina presto ma io faccio finta di niente e tengo il volume bassissimo; con un " orecchio interno" percepisco più che sentire il suo disappunto.
Se fosse un cartone o un fumetto farebbe:" Grrr , pfui, splash grrr".
Meglio far finta di niente...

L' ITALIA...

" Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di province, ma bordello! " ( Purgatorio - Canto Vi )
 — 

martedì 19 febbraio 2013

LA CIRCUMVESUVIANA


Si sa che basta un profumo, una canzone, un nome o una foto e i ricordi ritornano e sono vivi e presenti.
Per l' amico che l' ha scattata, questa foto, credo, rappresenti gran parte della sua vita lavorativa...lui ha i suoi ricordi.
Io posso parlare dei miei.
Per noi napoletani e campani in genere questa scritta significa Circumvesuviana o Vesuviana o Circum, dipende.
E' una ferrovia che collega Napoli ai comuni suburbani; se non sbaglio ci sono cinque linee diverse.
Il mio primo ricordo è legato a mio padre; era figlio di un avvocato famoso, aveva un titolo di studio e al ritorno dalla guerra e dopo il matrimonio con mamma trovò lavoro là: era modesto, penso, come impiego.
Era agli sportelli e dava i biglietti a chi andava a farli.
Lavorò là per una decina di anni finchè poi non passò, nel migliorare dei tempi e dell' economia, al campo assicurativo dove rimase per sempre.
Quello che rimane a me come insegnamento è la levità, leggerezza, allegria, eleganza con cui svolgeva questo lavoro certamente inferiore al suo titolo di studio e al tipo di vita da " rampollo bene" che aveva condotto prima della guerra.
Avevamo un certo numero di viaggi gratis per noi e la famiglia.
Resta famoso in casa un episodio: un giorno la mamma di un nostro amico si qualificò come suocera di mio padre per usufruire della gratuità senza sapere che nella carrozza precedente c' era la VERA suocera, mia nonna, che veniva a farci visita a Vico.
Ecco Vico Equense nasce come conseguenza della Circum.
Quando nel '56 potemmo permetterci nuovamente i due mesi di " villeggiatura " che poi si allungarono smisuratamente nel tempo, la scelta cadde su Vico perchè era il primo paese della Costiera e papà, dopo il lavoro, poteva raggiungerci facilmente.
E poi negli anni c'è sempre stata la Circum: per andare a Sorrento ed evitare il traffico, per spostarsi da Vico a Napoli e viceversa.
Nel ' 74 Vittorio, alle soglie della laurea in ingegneria, fece una tesina per un esame sui nuovi " allora " sistemi di elettrificazione della Circumvesuviana.
Dopo il nostro matrimonio lavorò in una società di apparecchiature elettriche; dopo una decina di anni cominciò a rispondere a inserzioni e sostenere colloqui altrove per migliorare la sua posizione.
Ne fece uno o due anche alla Circum e gli fecero capire che sarebbe stato scelto.
Per un pelo, arrivò un altro con un curriculum più completo e adatto, non ce la fece.
Avemmo la notizia mentre vedevamo in tv " Momenti di gloria": quel film e la sua colonna sonora mi ricordano sempre quel momento.
Allora fu una delusione.
Se avesse ottenuto quel posto probabilmente avrebbe perso la grande occasione che si presentò l' anno dopo qua a Milano.
Ricordi, ricordi...tanti!
Grazie a questa foto.
 

mercoledì 13 febbraio 2013

IL CARNEVALE AMBROSIANO: PERCHE' DURA DI PIU'


Il Carnevale è la festa degli scherzi e dei travestimenti per eccellenza, almeno nel mondo cristiano.
Tale periodo precede quello della Quaresima e, infatti, anche il suo nome deriva dal latino carnem levare ossia eliminare la carne poiché, il giorno di Carnevale è quello che precede l’inizio del digiuno quaresimale.
Il rito romano vuole che il giorno dedicato ai festeggiamenti coincida con il martedì precedente il Mercoledì delle ceneri (giorno d’inizio della Quaresima) ma a Milano non è così.

La città meneghina segue, infatti, il rito ambrosiano per il quale la Quaresima ha inizio la domenica successiva al Mercoledì delle ceneri.
Per tale motivo, il giorno dedicato ai festeggiamenti del Carnevale è il sabato anziché il martedì.
Questo accade perché, nel rito ambrosiano, è diverso il modo di contare le date di inizio e fine Quaresima.
Nel rito romano (quello osservato dal resto d’Italia) le domeniche non vengono contate come giorni di penitenza e dunque la Quaresima dura di più e comincia prima.
Fu Sant’Ambrogio, che nel IV secolo era vescovo di Milano, a decidere che le domeniche fossero calcolate.

La leggenda narra, invece, che Sant'Ambrogio era impegnato in un pellegrinaggio e chiese alla popolazione di aspettare il suo ritorno per iniziare le liturgie quaresimali posticipando anche la fine del Carnevale.

I PICCOLI MARTIRI DI GORLA

Chiedo scusa ai miei amici se sembra che oggi parli solo di fatti tristi; perdonatemi!
Appena arrivata a Milano, nel 1987, durante un documentario televisivo fu intervistata la mamma di uno dei " piccoli martiri di Gorla", una donna già anziana, fissata per sempre come una figura pirandelliana in quell' attimo di dolore che aveva distrutto la sua vita.
Chiesi a Vittorio di portarmi a vedere il luogo e il monumento che si vede qua e rimasi sconvolta e commossa.
Da allora sono passati 25 anni; i genitori sono tutti, credo, morti.
I milanesi sanno cosa a cosa sia legato il nome di Gorla ma per tanta gente non è altro che una fermata della metropolitana.
Quante sono le piccole grandi tragedie in quella immane della guerra e quante memorie scompaiono col tempo!

" La strage di Gorla "o "piccoli martiri di Gorla" sono le denominazioni con cui vengono chiamate le conseguenze di un bombardamento aereo degli Alleati che colpì la scuola elementare "Francesco Crispi" di Milano nel quartiere di Gorla, il 20 ottobre 1944, durante la seconda guerra mondiale provocando la morte di 184 bambini.
A Gorla la scuola elementare Francesco Crispi accoglieva tutti i bambini del quartiere, figli di operai, di artigiani, di impiegati; molti di questi alunni erano stati fatti rientrare dallo sfollamento perchè i genitori erano convinti che ormai "la guerra era finita"; dato l'alto numero di piccoli che frequentavano la scuola si era resa necessaria l'istituzione del doppio turno.
Quella mattina i 200 bambini presenti erano i figli di chi poteva condurre una vita con qualche problema in meno (almeno dal lato economico) rispetto a chi, abitante nelle case della Fondazione Crespi Morbio, era considerato più bisognoso e prima di seguire le lezioni del turno pomeridiano usufruiva della refezione scolastica a carico del Comune.
Pochi altri erano assenti per motivi di salute o perchè, vista la bella giornata di sole, avevano deciso di marinare la scuola.
Quelli del turno pomeridiano erano a casa.

Alle 11,14, quando suonò il piccolo allarme, le maestre cominciarono a preparare gli alunni per scendere nel rifugio, altre cercarono prima di informarsi in direzione se si trattasse del grande allarme e magari, il piccolo non l'avevano sentito.
Quando alle 11,24 suonò veramente il grande allarme, la testa del corteo formato dai bambini era già arrivata nel rifugio, altri si trovavano ancora sulle scale; in quegli attimi i bombardieri erano ormai visibili a tutti: nel cielo azzurro tanti piccoli punti argentei dai quali si staccavano altri punti ancora più piccoli.
Le bombe avevano iniziato a cadere sul quartiere.
A questo punto alcuni bambini scapparono da scuola cercando di raggiungere la propria casa, con il rischio di essere colpiti per strada (come in alcuni casi avvenne).
Trovandosi al piano terreno, la quinta del maestro Modena non dovette percorrere le scale, fu quindi l'unica classe che ebbe la possibilità di salvarsi al completo.
Per tutti gli altri il destino fu più tragico: una delle 170 bombe lanciate su Gorla si infilò nella tromba delle scale ed esplodendo causò il crollo dell'ala dello stabile e delle scale stesse sulla soletta in muratura che sovrastava il rifugio, trascinando con sè tutti i bambini ed i loro insegnanti nel cumulo di macerie.
Anche numerosi genitori che al suono del piccolo allarme erano corsi a scuola per riprendere i propri figli, morirono nel crollo.

Appena finita la sequenza di esplosioni e depositatosi il polverone grigio e soffocante causato dagli scoppi e dai crolli, i cittadini che si trovavano nelle vicinanze della scuola si resero subito conto di quanto era successo, diedero l'allarme ed iniziarono a scavare con badili, picconi o semplicemente con le mani; nonostante i danni interessassero tutta la zona, i soccorsi si concentrarono principalmente sulla scuola dove accorrevano i genitori per cercare di sapere cosa fosse successo ai loro figli.

Subito fu chiara la dimensione della tragedia, dalle macerie venivano estratti solo corpi senza vita; particolarmente attivo in quelle ore fu un giovane sacerdote, Don Ferdinando Frattino, che con la sua opera contribuì al salvataggio di un buon numero di bambini, ma purtroppo sempre pochi: gli alunni morti quella mattina furono 184, più tutte le maestre, la direttrice ed il personale ausiliario. Quello che accadde negli ultimi minuti della scuola è affidato ai ricordi di chi, in vario modo, riuscì a sopravvivere.

I funerali si svolsero nella vicina parrocchia di Santa Teresa del Bambino Gesù alla presenza di milanesi venuti da tutta la città a testimoniare il loro dolore; i piccoli vennero tumulati nel cimitero di Greco dal quale vennero poi trasferiti una volta pronto il monumento ossario.


" E VI AVEVO DETTO DI AMARVI COME FRATELLI..."

Così recita l'iscrizione sull'Altare all' interno della cripta dove riposano i resti dei Piccoli Martiri della scuola di Gorla.

Per quelli che fossero interessati esiste un sito, molto esauriente, con foto della zona, della scuola, la storia completa e tante testimonianze di bambini di allora e di genitori.

martedì 12 febbraio 2013

CELESTINO V


Celestino V, al secolo Pietro Angelerio da Morrone, nasce nel 1215 da contadini poveri.
All'epoca il suo paese di provenienza (della oggi Piana del Fucino ed in passato teatro di vere e proprie battaglie navali) si chiamava Marruvium: oggi invece si è trasformato in San Benedetto dei Marsi.
A 16 anni viene accolto dai Benedettini di Santa Maria dei Fafoli, a Benevento.
Nel 1231 veste l'abito benedettino: tende a isolarsi nell'ascetismo della vita eremitica.
Per tre anni vive con un confratello in una grotta da lui stesso scavata nella roccia, sperduta tra i boschi, in totale isolamento, presso il monte Palleno (oggi Porrara), dove poi sorgerà il santuario di S. Maria dell’Altare.
Inizia a predicare sul monte Palleno alla Maiella.
Sospinto dalla gente dei luoghi vicini a farsi consacrare sacerdote, ma anche per sottrarsi all’indesiderata frequentazione dei pellegrini, si reca a Roma.
Dopo gli studi presso il Laterano, viene ordinato sacerdote da papa Gregorio IX, che gli permette di proseguire la vita eremitica.
Nel 1241 lascia Roma, ma invece di tornare sul Palleno, si ferma presso Sulmona, in località Segezzano, probabilmente dopo aver appreso che in quei luoghi aveva dimorato il famoso eremita Flaviano da Fossanova.
Anche qui, alle pendici del Morrone, trova riparo in una grotta presso la chiesetta di S. Maria di Segezzano, sulla quale sarà poi edificato il monastero di S. Spirito.
In questa spelonca, Pietro comincia ad essere avvicinato da quelli che saranno i futuri discepoli. Si tratta di centinaia di giovani provenienti dalle vicine casupole di Bucchianico, Caramanico, Salle, Roccamorice, Pratola, attratti dalla sua vita eremitica.
Lui, che è uomo taciturno, silenzioso e riservato, li accoglie suo malgrado, perché non intende condividere con alcuno la sua solitudine.
Infatti nel 1246, insofferente alla frequentazione dei fedeli, che diventano sempre più numerosi, abbandona l’eremo di Segezzano per rifugiarsi nella vicina Maiella dove, sulla parete dell’Orso, alla Ripa Rossa, trova un primo, inaccessibile rifugio.
Successivamente si sposterà in uno fra i più impervi dirupi di quelle montagne, chiamato S. Spirito di Maiella, dove poi sarà edificato il famoso monastero che fino al giugno del 1293 sarà Caput Congregationis.
Resterà per lunghi anni sulla Maiella, sempre in fuga dalle turbe di fedeli che insidiavano la sua solitudine e sempre alla ricerca di nuove e più irraggiungibili caverne, perché masse di pellegrini poveri, infermi e disperati, per trovare conforto alle loro sofferenze, lo raggiungevano ovunque, persino nei proibitivi antri di S. Bartolomeo di Legio e di S. Giovanni sull’Orfento.
Qui, sui monti della Maiella, negli anni che vanno dal 1246 al 1293, si consolida definitivamente la sua fama di taumaturgo.
Nel 1264, ispirandosi al movimento di Gioachino da Fiore, decide di fondare la Congregazione dei Fratelli penitenti dello Spirito Santo o Celestini.
La regola fu approvata da papa Urbano IV. L'ordine sfugge, dopo il Concilio Lateranense del 1215, alla soppressione voluta da papa Gregorio X: Celestino infatti andò a piedi sino a Lione, dove stava per svolgersi il Concilio Lionese II, per chiedere al pontefice la tutela del proprio ordine e la ottenne, poiché il suo movimento non veniva considerato politicamente ostile alla chiesa. D'altra parte Celestino aveva sempre condotto una vita di penitenza, preghiera, silenzio, rigorosa astinenza, durissimi e prolungati digiuni, autofustigazione e mortificazione della carne, in contrapposizione a quella cenobitica.
Nel 1287 i celestini avviano le pratiche per la costruzione sul Colle di Maio (oggi Collemaggio) di un'abbazia: l'anno successivo viene consacrata la basilica.
Nel giugno del 1293, sempre sospinto dalla sua insopprimibile brama di solitudine, Celestino convoca il quarto (e ultimo) Capitolo Generale e, tra la costernazione dei discepoli, comunica la sua irrevocabile decisione di volersi ritirare per sempre sul Morrone e qui morirvi.
A tale scopo farà scavare il famoso eremo di S. Onofrio, dove vivrà per tredici mesi in assoluta segregazione, recidendo tutti i contatti col mondo esterno, salvo quelli strettamente connessi alla sopravvivenza.
Intanto a Perugia, undici cardinali, dopo la scomparsa di papa Niccolò IV, si contendevano nel conclave, da 27 mesi, il soglio pontificio, incapaci di comporre un conflitto fondato esclusivamente sulle bramosie di potere delle potenti famiglie degli Orsini e dei Colonna.
Nella mischia (e quindi negli affari del conclave) si era gettato anche Carlo II d’Angiò, il quale aveva urgente bisogno di un papa che ratificasse l’accordo raggiunto con gli aragonesi per la restituzione della Sicilia.
E fu proprio in quella occasione che il francese misurò la grinta del Cardinale Benedetto Caetani, il futuro Bonifacio VIII, il quale lo invitò a starsene fuori.
Il re, indignato per l’onta subita, ma anche disperato perché rischiava di veder vanificati gli effetti dell’intesa raggiunta, lasciò Perugia, ma invece di procedere per Napoli si reca a Sulmona, dove, agendo sull'ingenuità di Celestino, lo induce a scrivere una strana lettera ai cardinali riuniti in conclave.
In quella missiva Celestino sollecitava l’elezione del nuovo Papa, minacciando la collera di Dio se avessero ulteriormente protratto la vedovanza della "Sposa di Cristo".
E quelli, per uscire dallo stallo, individuano proprio nell'eremita morronese, l’agnello sacrificale al quale affidare, in uno dei momenti più drammatici dello scontro con il potere temporale, le sorti di una chiesa decadente.
Era l'anno 1294. Celestino viene incoronato papa all'Aquila. Emana subito dopo la Bolla del Perdono, con cui anticipa il Giubileo cristiano.
Fin da subito, però, la vittima sfugge dalle mani dei cardinali elettori, perché il nuovo pontefice viene, di fatto, sequestrato dal re angioino, che ne fa un inconsapevole strumento dei suoi maneggi politici.
Intorno a Celestino V, dal 29 agosto al 13 dicembre del 1294, pascolano faccendieri, maneggioni, affaristi, questuanti, trafficanti e "barattieri" d’ogni risma, che utilizzano il suo nome e le pergamene papali bollate in bianco, per concludere i loro affari.
Costretto a lasciare l’Aquila per seguire il re a Napoli, Celestino comincia a meditare, nell’angusta cella che si era fatta costruire in Castel Nuovo, di deporre le insegne papali.
E’ ormai vecchio e stanco, consumato dagli acciacchi e da una vita fatta di stenti e di privazioni indicibili; trova il coraggio d'imporre agli allibiti cardinali la sua rinuncia, incurante delle minacce del popolino napoletano che, sobillato dal re e forse anche da alcuni suoi discepoli, lo aggredisce devastando e saccheggiando la sua dimora.
Dopo 107 giorni rinuncia al papato: il fatto non ha precedenti.
Tra le motivazioni afferma di non voler offendere la propria coscienza, di desiderare una vita migliore e di non aver sufficiente sapere.
Il 24 dicembre del 1294, a soli dodici giorni dalla sua rinunzia, con il prezioso apporto dei voti francesi pilotati da Carlo d’Angiò, viene eletto papa Benedetto Caetani che assume il nome di Bonifacio VIII. Nasce fra il nuovo pontefice e il re di Napoli l'intesa che cancellerà d’un colpo la ruggine perugina e getterà lo scompiglio fra le file dei seguaci di Celestino, degli "spirituali", dei "fraticelli".
Le polizie congiunte di Carlo d’Angiò e di Bonifacio VIII ora vogliono catturare Celestino, il quale fugge da S. Germano per raggiungere la sua cella sul Morrone e successivamente Vieste, sul Gargano, da dove tenterà l’imbarco per la Grecia.
Qui viene raggiunto dai soldati, che lo rinchiudono nel castello di Fumone, presso Anagni.
La detenzione, nonostante le numerose falsificazioni addotte dai partigiani di Bonifacio, fu durissima; il rigore estremo di quella cattività è stato ampiamente documentato da tutti i cronisti dell’epoca. Nel 1296 viene assassinato.
Quattrocento anni dopo, Lelio Marini, Abate Generale della Congregazione dei Celestini, il più informato biografo del Santo (Pietro fu canonizzato il 5 maggio del 1313 da Clemente V) proverà a dimostrare, con un’accurata e puntigliosa disamina di numerosi reperti storici, che Pietro fu barbaramente ucciso per ordine di Bonifacio VIII. Le spoglie di Celestino si trovano nella basilica di Collemaggio a L'Aquila.
 

sabato 9 febbraio 2013

QUALCHE RIFLESSIONE


L' altro ieri ho risposto affermativamente a una richiesta di amicizia; nel dare il benvenuto, l' altra mi ha spiegato di essere già mia amica ma che stava creando un altro account per fare una " selezione naturale".
Questo mi ha fatto riflettere.
Io ho più di 700 amici: ci sono gli alunni ma quelli, che abbiano 20, 30, 40, o anche 50 anni non si discutono; c'è un filo tenace che ci unisce.
Basta un " mi piace " e vale più di un lungo discorso.
Ci sono quelli che devo prendere come sono: cari, affettuosi ma fatti a modo loro: il tipo distratto, lunare, che non si sogna nemmeno di leggere la nota che gli taggo ma che so che è caro, fa delle splendide foto e, a modo suo, mi vuole bene.
C'è l' amica che si lamenta se le si risponde solo con cuoricini o con " mi piace" ma è quello che fa lei con me e a volte penso:" Ma forse le sono solo antipatica?"
Ci sono persone deliziose con cui è un piacere conversare che mi accettano come sono e anche io mi sento libera nei loro confronti di dimostrare il mio affetto.
Ci sono amici d' infanzia, parenti e amici cari che vedo e sento spesso nella vita e allora fb diventa un modo più veloce per comunicare.
Ci sono quelli che dopo aver chiesto o accettato l' amicizia non si sono fatti più sentire e, quando è il loro compleanno, io penso:" E questo chi è e che gli/le dico?"
Ci sono quelli con cui ci si sentiva abbastanza spesso che, per cambiamenti di vita o, a volte, di umore, non sentiamo più.
Sono là, presenze sulla bacheca, ancora amici o forse non più.
Ci sono quelli a cui, a volte, penso di aver dato troppo: si rischia di essere presi meno in considerazione, di essere dati per scontati e questo, spesso, dispiace.
Ci sono quelli che nel periodo pre-elettorale si trasformano e, se non la penso come loro si scagliano con le lance in resta e la lingua tagliente!
Ci sono persone che ho scoperto per caso, che erano miei amici da tempo e con cui ho instaurato, quasi per combinazione, bei rapporti.
Forse dovremmo sempre riflettere un momento su chi c'è dietro quei nomi e dare una chance prima di rischiare di perdere un amico prezioso.
Ci sono quelli che ho cancellato o mi hanno cancellato, gesto estremo ma necessario, quando avviene.
Di quelli è inutile parlare perchè non possono leggermi.
Ci sono poi quelli, uno o due con i quali si crea un' amicizia " vera" ci si parla, ci si confida, sembra di conoscere la loro famiglia e la loro casa.
Per una sola di queste opportunità vale la pena di restare su fb anche se spesso penso che come fanno i giovani e non noi " diversamente " bisognerebbe prendere tutto con più leggerezza.
In genere io lo faccio ma qualche volta il mezzo mi prende la mano.
Che fauna siamo ragazzi!

lunedì 4 febbraio 2013

IL FEMMINIELLO


Napoli nella sua lunga storia, più volte millenaria, non ha conosciuto né il ghetto né l'Inquisizione, perché il carattere peculiare che ci contraddistingue da sempre è la tolleranza.
Da noi il femminiello può vivere quasi sempre, soprattutto nei quartieri popolari, in una atmosfera accogliente, segnata dal consenso e dal buonumore.
Nato in uno squallido basso, privo di aria e di luce, in una famiglia in cui la promiscuità è la regola, e dove i figli, tanti, dormono tutti assieme in un unico letto, il femminiello trova il pabulum ideale per sviluppare le sue particolari tendenze; tende spontaneamente, decidendo, ad un certo momento, senza essere incalzato da cause organiche o costituzionali, di appartenere: di essere donna!
Nei quartieri popolari è raro che questa decisione venga giudicata una disgrazia, la famiglia non pensa nemmeno lontanamente di allontanarlo, perchè sa bene che anche la società del vicolo lo accetterà senza problemi, anzi poco alla volta lo utilizzerà bonariamente come un factotum buono per mille piccoli servizi, dall'aiuto nel fare la spesa al rammendo degli abiti, mentre nessuna mamma avrà timore di affidargli i suoi bambini, anche piccoli, se dovrà allontanarsi per qualche ora dal basso per un'improvvisa incombenza.
Il femminiello gode quindi di una bonaria tolleranza in tutti i quartieri poveri della città, dove collabora attivamente all'arcaica economia del vicolo e dove, per la cultura popolare, non è mai un deviato, ma al massimo uno stravagante, che ama travestirsi ed imbellettarsi come una donna, assumere movenze e tonalità vocali caricaturali, amplificate da una gestualità quanto mai espressiva.
Il popolino lo accetta volentieri e lo utilizza frequentemente come valvola di sfogo di malumori e aspettative insoddisfatte, scaricandogli addosso, senza malizia, una valanga di improperi in un cordiale quanto irripetibile turpiloquio, condito di frasi onomatopeiche ad effetto, comunque senza mai isterismi o inutili intenzioni moralistiche.
Volgarmente è chiamato ricchione dal popolino, che ignora di adoperare un termine assai antico e di origine spagnola.
Furono infatti i nostri dominatori per tanti secoli ad introdurre, all'inizio del Cinquecento, nel nostro dialetto la parola orejones, con la quale si indicavano gli omosessuali, eredi della dinastia incaica, che si facevano forare ed allungare i lobi delle orecchie come segno distintivo.
Naturalmente personaggi dal sesso mascherato erano già presenti presso di noi da migliaia di anni e dobbiamo tornare molto indietro nel tempo, se vogliamo comprendere fenomeni che ancor oggi resistono nella nostra cultura, pur con le dovute trasformazioni.
Un esempio paradigmatico di quanto profonde siano le radici di antiche pratiche appartenenti al mondo dei travestiti, esistenti ancora oggi, anche se difficilmente visibili, avendo nel tempo acquisito il carattere della massima riservatezza, è costituito dalla cosiddetta "figliata d''e femminielli".
Essa non è altro che un rituale derivante dall'antico rito della fecondità, praticato per secoli nella nostra città.
La figliata si svolge segretamente alle pendici del Vesuvio, a Torre del Greco, ed è stata descritta accuratamente con accenti vivaci da Malaparte nel suo libro "La pelle" e dalla regista Cavani nell'omonimo film.
Questa originale iniziazione ad una femminilità particolare prevedeva un utilizzo di segrete conoscenze alchemiche, oggi perdute ed avveniva durante periodici festeggiamenti per l'avvenuta nascita del "maschio-femmina", dagli iniziati chiamata "Rebis", res + bis, cosa doppia.
Il rituale, descritto nella "Napoli esoterica" di Buonoconto, richiedeva la presenza di un ermafrodito, l'unica creatura che contenesse i due elementi in cui è suddivisa tutta la natura. I greci, da cui discendiamo, ritenevano divino l'ermafrodito, perché figlio della bellezza (Afrodite) e della forza (Ermes).
Naturalmente nel tempo la purezza ideale dell'ermafrodito alchemico si è in parte smarrita, sostituita dalla più materiale ambiguità del femminiello, ma l'antica memoria del rito non è andata del tutto smarrita e conserva immutata ancora oggi la forte carica simbolica, che suggestiona a tal punto alcuni soggetti, da fargli provare le stesse emozioni ed i lancinanti dolori del parto. Sdraiato sul lettino ed assistito dalle parenti, il femminiello vive le ore del travaglio ed il momento del parto.
Alcuni soggetti si immedesimano a tal punto nel rituale, da presentare, per effetto di una profonda quanto inconscia memoria ancestrale, tutti i segni della sofferenza con un'evidenza sconcertante, dall'accelerazione del battito cardiaco alla sudorazione, dal pallore anemico alle contrazioni dei muscoli addominali.
Durante le doglie le parenti accompagnano il travaglio con ritmiche litanie, la cui origine si perde nella notte dei tempi, dal trivolo vattuto, letteralmente dolore picchiato, al classico taluorno, un triste accompagnamento vocale delle veglie mortuarie, caratterizzato da una lamentazione ritmica, scandita da colpi portati alle guance dalle due mani contemporaneamente, mentre la testa oscilla ampiamente avanti e indietro.
Nell' acme della figliata, il femminiello simbolicamente espelle dalle cosce un bambolotto di pezza (di legno a forma di fallo, secondo Malaparte, che asserisce di aver assistito ad una figliata) accolto con grande gioia dalle comari, che accolgono trionfante il neofita nella loro ambigua comunità, offrendo in abbondanza agli astanti vermouth e babà.
A questi riti antichi e dimenticati si ricollega la credenza che il femminiello porti fortuna, sia portatore di una carica di magico, stando al limite del diverso, in condizione simbolica di ermafroditismo.
Questo è il motivo per cui egli è delegato a distribuire parte della sua fortuna agli altri nelle riffe, dove si mettono in palio dei regali in natura, legati all'estrazione dei numeri del lotto.
In genere di lunedì, giorno dedicato tradizionalmente al culto dei morti, avvengono, in vari punti della città, queste originali tombolate, accompagnate ad ogni numero estratto dalla spiegazione dei significati reconditi espressi nella "Smorfia".
La più famosa estrazione avviene ancora periodicamente nella chiesa di Santa Maria alla Sanità, conosciuta dal popolino come Monacone, all'uscita delle sottostanti catacombe di San Gaudioso. Il rituale è stato magistralmente descritto da Roberto De Simone nella "Gatta cenerentola".
I femminielli sono spesso ignoranti, a volte analfabeti, per la precocità della loro scelta e per la scarsa accoglienza da parte della scuola, che non gradisce la loro presenza nelle aule, al fianco di coetanei, nei quali i processi di identificazione sessuale sono ancora in via di definizione.
A tredici anni sono già introdotti a pieno titolo nella cerchia dei travestiti ed hanno ricevuto da parte del quartiere il consenso sociale che permette loro di identificarsi in una comunità riconosciuta, che ha un solo nemico giurato: il mondo delle prostitute, gelose del loro antico mestiere e giustamente timorose di perdere clientela.
Di giorno il femminiello fa vivere al quartiere momenti di gustosa ilarità, quando va a fare la spesa o semplicemente passeggia guardandosi intorno.
Truccati pesantemente soprattutto alle labbra, indossano camicette scollate e pantaloni attillatissimi, che a fatica nascondono una dimenticata, ma sempre imbarazzante appendice sessuale. Nonostante la cultura modesta, hanno spirito mordace, senso del ridicolo e la battuta sempre pronta.
Raggiungono il massimo della teatralità dal verdummaro, quando palpeggiano e scelgono le zucchine più lunghe e più dure o si beano accarezzando i meloni più tondi. Quando entrano in un negozio il divertimento è assicurato, vengono accolti con piacere dagli astanti e qualche ragazzo impertinente li sfruculea, canticchiando qualcuno dei motivi dedicati a loro dai neomelodici o la celebre canzone di Pino Daniele, che racconta la storia di un travestito di nome Teresa.
Non solo i compositori di canzonette hanno dedicato la loro attenzione al mondo dei travestiti, finanche un celebre commediografo, come Patroni Griffi , ha composto un lavoro teatrale "Persone naturali e strafottenti" e poi un romanzo "Scende giù per Toledo", il cui protagonista, Rosalinda Sprint, un travestito, rappresenta la più efficace metafora di una città, costretta dai ritmi incessanti imposti dalla modernità, a vivere in uno stato permanente di indeterminatezza. Rosalinda è rappresentata come pura fisicità, ostentata e sofferente, i suoi monologhi, pur nella loro stupidità, posseggono una carica di trasgressione e teatralità, derivata da una perentorietà biologica prorompente che non ammette ammiccamenti né compromessi con la cultura dominante.
Anche Attilio Veraldi, acuto indagatore dell'odierno disordine napoletano, ha costellato di oscuri travestiti le intricate trame dei suoi noir.
E lo stesso fanno Michele Serio nel suo romanzo granguignolesco "Nero metropolitano" e Andrej Longo nel suo ultimo lavoro "Adelante".
Fino agli anni Settanta indossare abiti da donna era per un uomo vietato dalla legge, ad eccezione dei giorni di Carnevale, e le forze dell'ordine potevano comminare multe salate ai contravventori.
Una sentenza, accolta poi da tutta la giurisprudenza successiva, stabilì che i travestimenti non erano più reato e da allora, tra lo stupore generale, il passeggio dei femminielli, in precedenza confinato prevalentemente nei vicoli dei quartieri spagnoli, è dilagato in pieno centro cittadino, con l'incessante ancheggiare di silfidi dalle spalle muscolose e dai seni siliconati prorompenti, a stento tenuti a bada da scollature vertiginose, dalle cosce monumentali generosamente esposte in minigonne mozzafiato. Esseri indefinibili, troppo belli per essere donne, che tradiscono il loro stato ambiguo per l'altezza eccessiva e per il profumo pestilenziale.
Il fenomeno, come abbiamo visto, non era nuovo, nuovo era soltanto lo scenario, che abbracciava oramai tutta la città.
In passato, come apprendiamo dalla "Storia della prostituzione" del Di Giacomo, vi erano luoghi, stabiliti dall'Autorità, dove travestiti e prostitute potevano liberamente esercitare...A lungo questa zona fu l'Imbrecciata, che si trovava nei pressi di Porta Capuana, vicino al borgo di Sant'Antonio Abbate.
Cominciò a svilupparsi intorno al 1530 ed in quell'area vennero progressivamente localizzati tutti i postriboli partenopei.
Infine,in un editto emanato nel 1781, l'Imbrecciata fu riconosciuta come l'unico quartiere dove era ammesso il meretricio.
Nel 1855, per evitare sconfinamenti, la zona fu delimitata da un alto muro di cinta con un solo cancello d'accesso, presidiato dalla polizia, che faceva cessare ogni attività poco prima della mezzanotte.
Questa segregazione durò fino al 1876, quando fu consentita la prostituzione anche in altri quartieri. Nell'ambito di questo rione off limits vi era una strada frequentata solo dai travestiti, che si chiamava per l'appunto vico Femminelle, toponimo che tramutò prima in via Lorenzo Giustiniani ed oggi via Pietro Antonio Lettieri.
Sotto la dominazione spagnola, impregnata di un cattolicesimo rigoroso e perbenista, gli omosessuali erano ghettizzati e tenuti sotto stretta osservazione. Non sappiamo quanti fossero, ma sappiamo che, se colti in flagranza, venivano puniti.
Il 17 febbraio 1504 Ferdinando III, detto il cattolico, promulgò una legge che prevedeva pene severe non solo per gli omosessuali, ma anche per chiunque si fosse abbandonato ad atti di sodomia.
Ad aumentare la severità delle sanzioni ci pensò poi Filippo II, il quale, il 28 luglio 1571, fece approvare una legge, che puniva addirittura i baroni, se gli stessi, nell'amministrare giustizia nei loro possedimenti, si fossero dimostrati indulgenti verso i cultori della via aborale.
Soltanto nell'Ottocento, dopo l'Unità, il clima divenne più liberale e Napoli da capitale di un regno divenne, per anni, capitale dell'omosessualità europea, con una prostituzione maschile in grado di soddisfare i desideri inconfessabili di ricchi viaggiatori stranieri provenienti dai quattro angoli del globo, alcuni dei quali celebri artisti e letterati.
 

JUTA DEI FEMMENIELLI

JUTA DEI FEMMENIELLI

Il giorno della Candelora, il 2 febbraio, a Montevergine si celebra l’antico rito della Juta dei femminielli. L’origine di questa tradizione è pagana e risalirebbe ai riti in onore della dea Cibele che nell’antichità precristiana si celebravano proprio sul monte Partenio. 
Fino a pochi decenni fa la festa della Candelora aveva un’importanza particolare per i contadini irpini in quanto era festa della luce e della fecondità.
 La juta dei femminielli è il primo dei tre pellegrinaggi previsti dal culto della Madonna di Montevergine, la “Mamma Schiavona”. 
Ogni anno molti femminielli provenienti anche da fuori regione, si ritrovano sul sagrato di Montevergine a intonare canti di ringraziamenti alla Madonna Schiavona al ritmo delle “tammurriate” che uniscono sacro e profano.
 Secondo un’antica leggenda, la festa sarebbe più antica del Santuario e risalirebbe addirittura al 1256, quando due omosessuali furono cacciati dalle mura cittadine per atti osceni e portati sul monte Partenio per lasciarli morire in una giornata d’inverno.
 Invece lì si compì il miracolo. Il Sole apparve all’improvviso e squarciò le tenebre così i due potettero vivere e amarsi.
 Da ricordare un episodio del 2002, quando l’abate del Santuario scacciò i femminelli dal sagrato della Chiesa al grido di “vergogna, vergogna”.
 Tutta l’Irpinia si ribellò organizzando con Vladimir Luxuria e il circolo di cultura omosessuale Mario Mieli la “femminiello pride”. Da allora non si sono più verificati episodi di intolleranza verso gay, lesbiche e trans che tutti gli anni si ritrovano a Montevergine per celebrare l’unione tra antiche tradizioni e i nuovi diritti.