martedì 22 novembre 2011

COME ERAVAMO


Quando ho parlato ieri dei nostri riti e feste di famiglia, fra i diversi commenti due mi hanno colpito.
Il primo, di un' amica che mi scriveva che io ero stata fortunata ad avere una giovinezza agiata, e che , a quei tempi, non per tutti era così.
Il secondo, del mio amico Alberto che, intuendo alla perfezione ciò che io avevo provato a raccontare, sottolineava come, più che di ricchezza io parlassi di un' epoca in cui, il " savoir vivre ", il decoro, unito alla raffinatezza, fossero quasi un abito interiore.
Nella mia vita ho avuto periodi di relativa agiatezza alternati ad altri, soprattutto nell' infanzia, in cui la mia famiglia ha attraversato anche momenti difficili.
Quando io avevo poco più di un anno morì il mio nonno paterno; noi vivevamo con lui.
I figli, erano dodici, e soprattutto le nuore, si incaponirono a voler vendere la casa.
A nulla valsero le insistenze di  mamma che sperava potessimo rimanere là, restituendo poco per volta i soldi della casa ai cognati.
Eravamo alle soglie degli anni '50, la guerra era finita da poco, andammo, in subaffitto come ho già scritto altrove, nella casa di una famiglia composta da padre e tre figli: loro avevano bisogno di soldi, noi di una casa; restammo là per quattro anni e là nacque mia sorella.
Noi avevamo un grande salone, oggi sarebbe forse di moda: da una parte c'era la camera da pranzo- salotto e dall' altra c'era la camera da letto dei miei genitori con i nostri lettini. Cucina e bagno credo fossero in comune con l' altra famiglia.
Non eravamo più o meno ricchi di tanti altri in quel dopoguerra; i miei genitori lavoravano entrambi, papà impiegato e mamma insegnante.
Certo, signori erano e signori rimasero; continuarono a ricevere  in quel " monolocale " come se fosse  un castello, e i nostri amici, anche quelli più agiati di noi, continuarono ad avere per mamma e papà  che erano allegri e amanti della compagnia, la stessa venerazione di sempre.
Quattro anni dopo papà riuscì ad avere una casa a Fuorigrotta dell' Ina Casa, di quelle che, dopo un certo numero di anni diventano di proprietà.
Ci abitammo per sei anni circa, la zona, periferica, non ci piaceva, nel '60 ritornammo, in affitto, e con noi venne anche la nonna materna, quella milanese, nel nostro quartiere al Corso Vittorio Emanuele.
In quella casa siamo rimasti fino all' 87, anno della nostra venuta a Milano.
Qua, poichè il lavoro di Vittorio lo permetteva, comprammo casa.
Le prime vacanze, a Vico Equense, le abbiamo fatte quando io avevo nove anni: ricordo il prima, quando andavamo con la Cumana, un treno così chiamato perchè univa Napoli a Cuma, a fare i bagni a Torregaveta; ricordo l' odore di corpi sudati, treno e gelato, la folla, le lunghe giornate trascorse a mare, il ritorno la sera a casa.
Ricordo anche la prima mattina in cui ci svegliammo, nella prima estate a Vico; mamma mi chiamò e restammo per parecchi minuti a guardare la campagna da una parte e il mare, laggiù, dall' altra; ci sentivamo in Paradiso.
Per questo amo tanto Vico, per questo apprezzo il valore di quello che ho come se lo avessi conquistato ieri.
Ma la raffinatezza nel ricevere, le feste, mai pacchiane o " esagerate ", ma connotate da precisi riti tramandati da generazioni, quelle rimasero sempre le stesse; non era nemmeno una questione di soldi;  gli oggetti, l' argenteria, i piatti belli erano di famiglia.
Ricordo che le zie, sorelle di papà mi spiegavano " come " si riceve; gli ospiti non dovevano mai essere lasciati soli o a disagio, le persone di famiglia  distribuirsi e dedicarsi un po' a tutti senza trascurare nessuno.
Con le torte salate andava servito il vino passito, poi i dolci e le coviglie; queste ultime solo i meridionali sanno cosa fossero; non mancavano mai alle festa di famiglia, erano dei semifreddi a vari gusti: cioccolato, nocciola, caffè, cassata, venivano portate a casa dal pasticciere in grossi cilindri di alluminio che servivano a mantenerle fresche e tirate fuori al momento di consumarle. Erano servite in bicchieri anche quelli di alluminio; poi il pasticciere provvedeva a portare via i bicchieri vuoti e il contenitore.
Ricordo nella mia gioventù periodi in cui potevamo permetterci le vacanze invernali e periodi in cui c' erano spese più urgenti; andavamo comunque incontro agli anni del boom economico quando tutto sembrava a portata di mano.
Quando qualcuno di noi si fidanzava le zie chiedevano del fidanzato/a di turno:" Come nasce? ". Non si curavano della posizione sociale della persona in questione ma del cognome; Napoli era un paesonev , l' importante era poter dire :" La mamma ( o la zia ) sono state nostre compagne di scuola" oppure: " Suonavamo il piano insieme, da ragazze.".
Non mi sono mai sentita inferiore a chi aveva di più nè superiore a chi aveva di meno.
Erano tempi in cui cultura, buona educazione e decoro  si accompagnavano e, indipendentemente dalle possibilità economiche, erano un quid che veniva riconosciuto a chi lo possedeva.
Quando papà si ammalò e non lavorò più ( furono due anni tremendi ), mamma, perchè potesse avere le migliori cure  vendette, poco a poco, tutti i gioielli che papà le aveva regalato in trent' anni di matrimonio, ed erano molti e belli.
Nessuno di noi si sentì sminuito da questa necessità: ci sentivamo gli stessi di sempre, circondati dall' amore degli amici, solidali tra noi senza troppe chiacchiere, si affrontava il momento difficile con discrezione, compostezza e mostrando agli altri il volto di sempre.
La famiglia di Vittorio, che era dello stesso ceto sociale della mia, forse agiata in maniera più " stabile", a parte le riunioni di famiglia in occasioni particolari cioè comunioni, anniversari, e occasioni simili, è stata sempre sobria e di " basso profilo".
Un basso profilo che noi abbiamo cercato di " passare " ai nostri figli, insieme all' idea che, delle "cose", dei beni materiali si può sempre fare a meno. Non è quello che conta ma ciò che si è dentro e c' era un tempo, che spero stia per tornare, in cui decoro interiore ed esteriore, rispetto, onestà,  pulizia morale e cultura erano qualità universalmente riconosciute.
Ricordo una frase di una socia del nostro Circolo del Tennis a Vico alla morte di mia madre.
Questa signora era di grande e recente ricchezza e ricordava sempre quando, bambina frequentava la scuola in cui  mamma insegnava.
Mi disse: " Tua madre era una vera signora no comme mo' ca simmo signore tutte quante".

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